La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 14 marzo 2017

Licenziare per aumentare i profitti

di Stefano Giubboni
La sentenza 7 dicembre 2016, n. 25201, con cui la sezione lavoro della Corte di cassazione ha affermato la legittimità di un licenziamento motivato dall’esigenza di rendere più snella la «catena di comando» di un’impresa per ridurre i costi della gestione aziendale e, quindi, per ottenere prevedibilmente un incremento dei profitti, ha avuto un’eco nella stampa quotidiana assai raramente riservata ad una pronuncia di legittimità, che pure tocchi, come in questo caso, questioni certo così rilevanti sul piano sociale, quali sono, peraltro, sempre quelle sollevate dai licenziamenti giustificati da ragioni economiche.
Le numerose reazioni critiche suscitate dalla decisione della Cassazione hanno così sorpreso gli addetti ai lavori, che non vi hanno colto elementi di novità tali da giustificare – almeno da un punto di vista tecnico – un tale clamore mediatico (e va pur detto che le più recenti sentenze, ad esempio la n. 4015 del 2017, con cui la Corte ha confermato l’orientamento espresso in quella pronuncia sono nuovamente passate, come di consueto, del tutto inosservate nella stampa quotidiana). Il dibattito suscitato da quella sentenza – al di là del fatto che essa abbia o no espresso un nuovo principio di diritto – ha peraltro avuto il salutare effetto di portare all’attenzione dell’opinione pubblica questioni molto rilevanti, che meritano di essere discusse ben oltre la ristretta cerchia degli addetti ai lavori, in quanto attengono, fondamentalmente, al modo in cui oggi il nostro ordinamento configura il rapporto tra la libertà economica dell’imprenditore e il contrapposto interesse del lavoratore alla conservazione del proprio posto di lavoro, almeno tutte le volte in cui esso non sia direttamente minacciato da una situazione di vera e propria crisi d’impresa.
In effetti, il principio di diritto affermato dalla sentenza n. 25201 del 2016 – ovvero che ai fini della legittimità del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro, tra le quali possono ricomprendersi quelle dirette a una migliore efficienza gestionale ovvero a un incremento della redditività dell’impresa, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo, attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa – non rappresenta, a rigore, una novità nella giurisprudenza della Corte di cassazione e ancor meno nelle elaborazioni dottrinali (che possono far leva sull’autorevole ricostruzione in tal senso proposta da Giuseppe Pera già a metà degli anni Sessanta). Anche in precedenza la Corte aveva infatti avuto modo di affermare che le ragioni che giustificano, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966, il licenziamento individuale per motivo oggettivo possono ricomprendere anche motivazioni economiche riconducibili a fattori interni alla gestione dell’impresa, e quindi anche iniziative datoriali assunte in vista di «una organizzazione più conveniente per un incremento del profitto» (così ad esempio la sentenza n. 5777 del 2003).
Tuttavia, sino alla sentenza n. 25201 del 2016, tale orientamento più liberale poteva considerarsi relativamente minoritario nella giurisprudenza della Cassazione, prevalendo un indirizzo volto ad escludere che un riassetto organizzativo deciso dall’imprenditore in vista di un incremento dei profitti potesse costituire una valida giustificazione del recesso, e ritenendosi, invece, che il presupposto costituito da una sfavorevole – e non contingente – situazione economica costituisse, pur in assenza d’una espressa previsione della legge in tal senso, un requisito di legittimità intrinseco al licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Questo orientamento più restrittivo, ispirato ad una diversa ponderazione degli interessi in gioco, volta a garantire la prevalenza di quello del lavoratore alla conservazione del posto in assenza di una situazione economica sfavorevole per l’imprenditore, dopo la sentenza n. 25201 sembra essere così superato dalla Suprema Corte, almeno a giudicare dalle prime pronunce successive a tale decisione.
È evidente che la Cassazione, nell’applicare la previsione dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966, che lascia sostanzialmente indeterminata la nozione di giustificato motivo oggettivo, si sia ispirata, con tale pronuncia, ad un diverso modello di bilanciamento degli interessi in rilievo, privilegiando risolutamente – a differenza che in passato – la libertà di iniziativa economica dell’imprenditore, ex art. 41, comma 1, Cost., rispetto alla salvaguardia della stabilità del rapporto di lavoro. Così come spetta all’imprenditore stabilire, in piena libertà, la dimensione dell’organico aziendale nel momento genetico dell’intrapresa (e della costituzione del rapporto di lavoro), allo stesso modo – spiega la Corte – «anche durante la vita dell’azienda la selezione del livello occupazionale dell’impresa rimane libera e non può essere pertanto sindacata al di fuori dei confini stabiliti dal legislatore, non essendo affidato al giudice il compito di contemperare ex post gli interessi confliggenti stabilendo quello ritenuto prevalente se un tale potere non trova riscontro nella legge».
Questo agnostico rifugio nell’ossequio formale alla nuda lettera della legge, ed il self-restraint che ne consegue, comportano una sostanziale riarticolazione della ponderazione degli interessi in conflitto, con un evidente arretramento della tutela che – già al preliminare livello della definizione del presupposto giustificativo del licenziamento individuale per motivo economico – era prima assicurata all’interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro. Mentre in passato, alla luce della giurisprudenza prevalente, quell’interesse – protetto dagli artt. 4, 35 e 41, comma 2, Cost. – poteva cedere solo di fronte ad una sfavorevole situazione economica dell’impresa, oggi esso risulta recessivo anche nei confronti di una qualunque decisione organizzativa e gestionale di riduzione del livello occupazionale aziendale, purché effettiva e non pretestuosa, ancorché diretta a un mero recupero di efficienza in vista di un incremento dei profitti.
La formulazione elastica e aperta dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966 autorizza, di per sé, tanto il primo che il secondo modello di bilanciamento giudiziale, onde l’argomento letterale secondo cui il requisito giustificativo della crisi d’impresa non sarebbe (più) ricavabile in via interpretativa dalla norma non ha un effettivo pregio e serve solo a edulcorare – nella motivazione della Cassazione – quella che deve invece apparirci per ciò che è, ovvero null’altro che una precisa opzione di politica del diritto, senza dubbio coerente con l’art. 41 Cost., volta ad ampliare – in modo molto significativo – i margini della libertà dell’imprenditore nella determinazione dei livelli occupazionali ritenuti convenienti per la proficua gestione dell’azienda. Può semmai obiettarsi che tale interpretazione comporti un superamento di fatto della teorica del licenziamento individuale per motivo oggettivo come extrema ratio, apparentemente non abbandonata dalla Cassazione. Oggi, dopo che il requisito giustificativo del recesso può dirsi integrato da qualunque effettiva e non arbitraria scelta datoriale di modifica dell’assetto organizzativo dell’impresa, che comporti la soppressione di una data posizione lavorativa, quella concezione – improntata ad un modello di bilanciamento dei valori costituzionali che ancora privilegiava la tutela del lavoro sulla libertà di iniziativa economica dell’impresa – finisce infatti per avere un rilievo molto circoscritto, a ben vedere ormai limitato al principio, anch’esso di elaborazione giurisprudenziale, per cui il datore di lavoro ha l’onere di provare di non poter adibire il lavoratore ad altre mansioni, anche inferiori, presenti all’interno dell’azienda.
Sennonché, anche su quest’ultimo piano, la tradizionale concezione del licenziamento economico come ultima ratio aveva subito un sostanziale ridimensionamento già grazie alla riforma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, attuata con la legge Fornero, che in pratica esclude il rimedio della reintegrazione nel posto di lavoro, con il conseguente risarcimento del danno (seppure nel limite delle dodici mensilità), per le ipotesi di violazione dell’obbligo di repêchage da parte del datore, ammettendo, in tali casi, solo la tutela indennitaria. Da questo punto di vista, l’opzione interpretativa della Corte di cassazione si pone, allora, in indubbia sintonia con le scelte compiute in questi ultimi anni del legislatore (a partire dalla previsione dell’art. 30 della legge n. 183 del 2010), che, soprattutto con il Jobs Act, ha decisamente puntato a ridurre il costo del licenziamento economico (illegittimo), sia individuale che collettivo, escludendo, in ogni caso, per i lavoratori assunti con il contratto a tutele crescenti, la possibilità della reintegrazione (e del connesso risarcimento del danno) e prevedendo, senza eccezioni, la sola (debole) tutela indennitaria (artt. 3 e 10 del decreto legislativo n. 23 del 2015).
La sentenza n. 25201 del 2016 si uniforma, dunque, allo spirito del tempo, e non a caso – nell’enfatizzare il valore costituzionale della libertà d’impresa, che è il vero perno del nuovo modello di bilanciamento, così evidentemente sfavorevole alla vecchia garanzia statica di sapore novecentesco della stabilità del posto di lavoro – la Corte di cassazione richiama diffusamente, nella motivazione, fonti e precedenti dell’ordinamento dell’Unione europea. La «flessibilizzazione» della disciplina del licenziamento economico è da anni al centro delle raccomandazioni di policy variamente formulate nell’ambito della cosiddetta governance economica europea e certo non casualmente i paesi dell’Unione che più duramente hanno dovuto fronteggiare gli effetti della grande recessione (si pensi ad esempio alla Spagna) si sono tutti variamente cimentati in una più o meno incisiva opera di riduzione dei vincoli al potere datoriale di recesso in questo cruciale versante di esercizio della libertà d’impresa. La stessa Corte di giustizia dell’Unione europea ha, come ovvio, molto contribuito a rafforzare questa tendenza, da ultimo con una sentenza sulla normativa greca in tema di licenziamento collettivo (causa C-201/15, AGET Iraklis), che spicca per la adamantina affermazione del valore preminente della libertà d’impresa in una economia di mercato, per quanto improntata alla garanzia di valori sociali.La rilettura liberista dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966, fatta finalmente propria dalla Cassazione, si inserisce, dunque, in questo trend – e per questo, per quanto possa apparire criticabile, non riesce a stupire il disincantato addetto ai lavori.

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