La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 7 giugno 2017

Ma il Pil non basta a misurare la felicità. Intervista a Angus Deaton

Intervista a Angus Deaton di Eugenio Occorsio
Quando vinci il Premio Nobel per l'economia per i tuoi studi sulla povertà, sull'assistenza, sulle diseguaglianze sociali e geopolitiche, e sulle conseguenze che tutto questo ha sullo sviluppo dei Paesi, com'è accaduto nel 2015 ad Angus Deaton, scozzese ma docente a Princeton, allora devi essere qualcosa di più di un economista: un sociologo, uno psicologo, un fine antropologo. "A me più che le cifre del Pil, che pure hanno il loro rilievo", spiega, "interessano altri parametri per valutare la condizione di un Paese: il livello di inclusione sociale, la diffusione di benessere fra la gente, soprattutto il livello medio di tutela della salute della popolazione.
Chiamiamola, se volete, felicità ". Deaton ci parla dal suo ufficio del New Jersey, ma sta per partire per l'Italia, dove nella serata del 12 giugno terrà una lectio magistralis a Modena in occasione del 150° compleanno della Bper. Una banca che ha fin dalla ragione sociale la dicitura "popolare" non poteva fare scelta migliore per rimarcare il suo ruolo nella diffusione dello sviluppo e della salute sul territorio ben al di là delle cifre contabili.
Professore, l'ultima volta che abbiamo avuto il privilegio di incontrarla, a Roma in ottobre a un convegno sulla solidarietà organizzato dal cardinale Ravasi, lei ci disse: "Se vince Trump, lascio gli Stati Uniti". È sempre dell'idea?
"Davvero ( ridendo) ho detto così? Beh, diciamo che sto ancora qui... Certo, l'imbarazzo è tanto, e la preoccupazione pure. La nostra speranza, la speranza di quanti hanno a cuore un'America priva di contrapposizioni, razzismo, diseguaglianze, sta nel Congresso e nel meccanismo del checks and balances in cui l'America dà una lezione di democrazia, come dimostrato in occasione di quei ridicoli bandi, rigettati dai magistrati, a chi veniva da certi Paesi. Non sarà facile per Trump far passare i provvedimenti più estremi, dal sovvertimento dell'Obamacare a muri e protezionismi. E questo malgrado la maggioranza repubblicana, che è fatta di gente di buon senso. Non a caso finora nessuna legge radicale è stata approvata. Staremo a vedere. Certo, dove Trump ha la mano più libera, in politica estera, le esternazioni contradditorie sulla Russia e sulla Corea del Nord sono da mettersi le mani nei capelli".
La sua "lectio" si intitolerà "La grande fuga", come il suo ultimo libro: chi fugge da cosa, e perché?
"Semplificando si può dire che si fugge dai Paesi poveri per cercare miglior fortuna: non dobbiamo mai dimenticarci che ancora 700 milioni di persone vivono sotto il livello di sussistenza, senza contare le guerre. E mentre in tutte le altre zone del mondo il numero dei poveri scende, nell'Africa sub-sahariana continua a salire. Ma in realtà la fuga è anche da altro, dai guasti di una globalizzazione che ha sì dato qualche forma di crescita, ma altrettanto indubbiamente ha accentuato le diseguaglianze perché ha offerto opportunità che non tutti potevano cogliere. La globalizzazione sana è fatta di investimenti in loco in infrastrutture, ospedali, scuole, fabbriche. Insomma, l'Occidente dovrebbe creare comunità consapevoli e autosufficienti, e non limitarsi, quando ci sono, a contributi donativi di varia natura che spesso non finiscono neanche alla gente. In Kenya i potentati locali che appena arrivano i fondi dall'estero corrono a comprarsi la Mercedes li chiamano WaBenz".
Il suo "collega" Nobel Amartya Sen parla di "inganno della felicità" e anche lei in vari interventi ne ha fatto cenno. Di cosa si tratta, del "calcio oppio dei popoli", come diciamo in Italia?
"Non conosco quest'espressione ma credo che renda l'idea. Troppe volte, e per lo più ma non esclusivamente nei Paesi non democratici, con qualche contentino di facciata alla popolazione si ottiene demagogicamente un facile consenso. È uno strumento pericolosissimo del potere per conquistare l'appoggio del popolo mentre non si fa nulla per elevarne il livello economico, sociale, sanitario. Perfino negli Stati Uniti spesso si usa questo perfido giochetto ai danni dei neri, che continuano addirittura oggi a essere meno ricchi, ad ammalarsi di più, a essere vittime di discriminazioni. Eppure a volte dicono di essere più felici dei bianchi. Amartya ha ragione: dobbiamo essere scettici quando da superficiali sondaggi emerge un livello di soddisfazione sorprendentemente alto".

Fonte: La Repubblica 

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