di Michele Zanzucchi
Grande risonanza mondiale, in particolare nei Paesi arabi, ha suscitato la nuova ondata di proteste scatenatasi tra martedì e mercoledì in Tunisia. La settimana scorsa, il governo tunisino aveva varato un ambizioso bilancio per un rilancio del Paese. Solo che tale progetto sarebbe stato finanziato con misure di austerità e un aumento delle tasse.
Così, a sette anni dalla rivolta popolare del 2011, definita come la prima della “primavera araba” (mentre oggi si preferisce parlare di “transizione araba”), nella notte tra martedì e mercoledì gli incidenti hanno portato ad almeno 200 arresti, 50 poliziotti feriti e non si sa quanti manifestanti, soprattutto a Tunisi e Tebourba, a ovest della capitale, con molotov, lacrimogeni, barricate, lancio di pietre… Si contano assalti a negozi e supermercati, danneggiamenti di banche e uffici pubblici, in atti di violenza assai pronunciata. Altre città coinvolte sono state Kasserine, Gafsa, Jedeida, Gabes, Nabeul e Sidi Bouzid, dove era cominciata la rivolta del 2011.
La rapidità della propagazione degli scontri obbliga a porsi una domanda: le rivolte erano preventivate da qualche gruppo particolare, oppure il malcontento tra la popolazione è così elevato che è bastata una scintilla per far scoppiare tutto? Certamente la rivalità tra i partiti governativi guidati da Ennahda e quelli all’opposizione guidati dal Fronte popolare ha avuto un suo ruolo, se è vero che un esponente dell’opposizione parlamentare è arrivato a dire che «se il governatore ruba, ovviamente la gente ruberà». Il primo ministro tunisino, Youssef Chahed, ha condannato la violenza «al servizio degli interessi di reti corrotte per indebolire lo Stato».
La risposta alla domanda probabilmente deve considerare le due concause: la stagnazione economica del Paese, provocata in primis dallo stato comatoso della principale fonte di entrate del Paese, cioè il turismo, e dai problemi di sicurezza alle frontiere, per via delle infiltrazioni di terroristi e radicali islamisti dalla Libia. La disoccupazione è al 15% e l’inflazione è superiore al 6%. L’opinione pubblica ritiene che i governi degli ultimi anni abbiano saputo solo scavare ulteriormente il fossato che separa ricchi e poveri. Il governo sta cercando di modificare il bilancio per stemperare la rivolta.
Fonte: unimondo.org
Originale:http://www.unimondo.org/Guide/Politica/Democrazia/In-rivolta-per-il-pane-170952
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