di Carlo Formenti
L’accelerazione è un tratto caratterizzante della civiltà tardocapitalista ed è, anche, una delle cause principali, se non la principale, della sua natura distruttiva.
Il motore che più di ogni altro alimenta questa folle corsa verso le catastrofi – economiche, ambientali, sociali, culturali, antropologiche, politiche e morali – è lo sviluppo tecnologico, anche se la sua debordante potenza si comprende solo tenendo conto delle sue strette relazioni, da un lato con la ricerca del profitto, dall’altro con il persistere di una profonda e diffusa fede nel suo ruolo intrinsecamente positivo; convinzione che, come tutte le fedi irrazionali, è affetta da dissonanza cognitiva, non si lascia cioè intaccare da nessuna smentita empirica.
Il motore che più di ogni altro alimenta questa folle corsa verso le catastrofi – economiche, ambientali, sociali, culturali, antropologiche, politiche e morali – è lo sviluppo tecnologico, anche se la sua debordante potenza si comprende solo tenendo conto delle sue strette relazioni, da un lato con la ricerca del profitto, dall’altro con il persistere di una profonda e diffusa fede nel suo ruolo intrinsecamente positivo; convinzione che, come tutte le fedi irrazionali, è affetta da dissonanza cognitiva, non si lascia cioè intaccare da nessuna smentita empirica.
Due recenti notizie offrono altrettante conferme di questa diagnosi. La prima sta ottenendo da qualche giorno un enorme rilievo internazionale, occupando pagine e pagine di giornali e ampi spazi nei notiziari televisivi: da qualche mese il dorato mondo di Silicon Valley convive con un incubo di cui il resto dell’umanità è venuto a conoscenza solo negli ultimi giorni: i processori sempre più potenti e performanti che sono l’anima dei nostri computer, tablet, smartphone (ma anche dei grandi server aziendali e governativi) sono affetti – e non da ieri bensì da anni! – da due difetti di design (che gli esperti hanno battezzato con i sinistri nomi di Meltdown e Spectre) che li rendono penetrabili da hacker a caccia di dati personali, password, informazioni sensibili (dai conti correnti alle informazioni militari). Dal disastro non si salva nessuno: Intel, Microsoft, Apple, Google sono tutti nella stessa barca mentre gli affannosi tentativi di metterci una pezza sono destinati a ottenere risultati limitati, perché il bug questa volta sta nel cuore delle macchine e non nei programmi.
Archiviato il cinismo dei colossi informatici che si sono ben guardati dal diffondere tempestivamente la notizia, onde evitare il panico dei consumatori e un possibile calo di vendite sotto Natale (per tacere del comportamento di Brian Krzanich, alto dirigente di Intel, il quale si è affrettato a vendere per tempo la propria quota di azioni aziendali in previsione del loro prevedibile calo), veniamo al punto: cosa c’entra tutto ciò con l’accelerazione? C’entra perché, come spiega un articolo dell’Economist, le due falle sono il risultato della corsa – alimentata dalla concorrenza fra i giganti del settore – a ottenere prestazioni sempre più rapide, sul filo dei millisecondi, da macchine e programmi (vedi il ricorso da parte di Intel di un trucchetto chiamato speculative execution, che fa sì che il sistema “anticipi” l’esecuzione delle procedure dando per scontato che esse stiano per essere attivate).
E a rendere più grave la situazione è la forsennata pressione delle società nei confronti degli utenti per convincerli a condividere i loro dati per garantirne la “sicurezza”, laddove il vero obiettivo è quello di profilare e fidelizzare la clientela; mentre privacy e sicurezza vengono messi ancora e più a rischio, facilitando il compito degli hacker, i quali, grazie alle falle di cui sopra, possono accedere a grandi concentrazioni di dati da incrociare per realizzare i propri obiettivi. Adesso occorreranno anni per risolvere il problema, a mano a mano che le vecchie macchine verranno sostituite da nuovi modelli, mentre le “pezze” che ci verranno suggerire come soluzione provvisoria avranno l’ironico effetto collaterale di rallentare macchine e programmi fino a un terzo dell’attuale velocità.
Passiamo alla seconda notizia. Sempre l’Economist pubblica un servizio sugli straordinari progressi nel campo delle interfacce cervello/computer, citando il caso di una signora che ha potuto riacquistare la sensibilità della mano amputata grazie all’interscambio di informazioni fra il suo cervello e la protesi che le hanno impiantato. Segue un elenco di altri possibili “miracoli”: restituire la vista ai ciechi e l’udito i sordi e persino il controllo del proprio corpo ai tetraplegici, ma anche una galleria di possibili orrori: controllo dei cervelli a distanza per scopi militari (e di controllo politico, anche se quest’ultima chance viene mascherata come possibilità di “curare” depressioni e altre malattie psichiche).
Seguono poi le consuete deliranti giustificazioni in merito alla necessità di “adattare” la nostra specie a un mondo in cui le intelligenze umane saranno superate da quelle artificiali: anche se, si rammarica l’autore dell’articolo, persistono ostacoli tecnici (le tecnologie in questione sono ancor in fase sperimentale), scientifici (conosciamo ancora troppo poco del cervello umano) ed economici (i costi sono astronomici e i tempi dalla sperimentazione alla commercializzazione molto lunghi). Per tacere dei problemi etici e politici: dal rischio sicurezza e privacy, all’aumento della disuguaglianza fra chi potrà permettersi questi potenziamenti da cyborg e tutti gli altri. Ma, come ben sappiamo, non è che il problema della disuguaglianza preoccupi eccessivamente le élite neoliberali al potere, mentre acquisire ulteriori strumenti di repressione e controllo sugli oppositori non sarebbe certo considerato un fatto negativo.
Per concludere: quando ci renderemo conto che accelerare ulteriormente il “progresso” tecnologico non vuol dire creare le condizioni di un mondo migliore, e che sarebbe piuttosto arrivato il momento di tirare con energia il freno a mano?
Fonte: blog-micromega
Originale:http://blogmicromega.blogautore.espresso.repubblica.it/?p=23952
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