La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 16 agosto 2015

Versi per la condizione precaria


di Ida Travi
Se il senso più pro­fondo della poe­sia si radica nelle forme dell’esistenza, la poe­sia di Fabio Fran­zin emerge dal duro ter­ri­to­rio del Nord Est. Sta nella casa, nel campo, nel reparto, e scorre decisa su un dop­pio bina­rio: da un lato la memo­ria e il legame con le radici, dall’altro lato il lavoro e l’esperienza con­tem­po­ra­nea del lavoro in fabbrica.
È il Nord Est, ma è come un dap­per­tutto. Con Sesti/Gesti, rac­colta edita per pun­toa­capo (pp.160, euro 16), Fran­zin avvia la sua dichia­ra­zione di poe­tica già dal titolo Sesti/Gesti: per Fran­zin scri­vere poe­sia è una forma d’agire, si tratta di gesti che fio­ri­scono in parola. Attra­verso le sette sezioni della rac­colta, Fran­zin ci porta con sé nella dimen­sione auro­rale di gesti umani sem­plici, den­tro e fuori dal luogo di lavoro verso la com­pren­sione di un pro­durre inverso, oppo­sto all’idea di un pro­durre per sala­rio, come se il lin­guag­gio poe­tico legit­ti­masse un movi­mento «con­tra­rio» alla fab­brica: come se la parola poe­tica por­tasse final­mente alla sospen­sione di ogni auto­ma­ti­smo, allo sgan­cia­mento da ogni ingranaggio.
Come se la parola poe­tica coin­ci­desse col gesto improv­viso di chi inter­rompe una catena. Come l’uscita da un’indifferenza, come un monito ai ras­se­gnati: «gli fa lo stesso che sia bianco o nero, pieno o vuoto, … / gli fa lo stesso tutto…» Là dove molti vivono in un tor­pore mor­tale, il poeta rea­gi­sce, nel vero senso della parola, cioè agi­sce ancora, scrive. Sesti/Gesti è poe­sia scritta in dop­pia lin­gua. La prima lin­gua è il dia­letto che si parla ancora nella Sini­stra Piave, l’area com­presa tra i fiumi Piave, Livenza e Mon­ti­cano, ed è l’idioma che si parla in casa. La seconda lin­gua è quella che s’impara a scuola, l’italiano par­lato nelle aule e scritto nei libri. Fran­zin assume que­sta duplice forma come se le due lin­gue fos­sero le rive oppo­ste dello stesso fiume: se cia­scuna riva segna la sua terra, le due rive insieme fanno scor­rere il fiume. Nel dire, la poe­sia come gesto, Fran­zin fa risuo­nare tra le due lin­gue, un ine­sau­sto inno alla mano intesa come il primo stru­mento dell’umano agire.
Sullo sfondo c’è la casa, la fab­brica, la natura e gli umani sen­ti­menti, resi­stenti come i movi­menti delle mani. Quel gesto di saluto dei com­pa­gni di lavoro, per esem­pio, solo un gesto di saluto: erano pre­cari, si sapeva. «Gli sca­deva a fine / mese, tra tre giorni. e ora ciao. / Gesti. Sesti, dicono a Livenza. I iera co’ noàn­tri da sie mesi…».
Molte figure entrano nei versi: il figlio, il padre, la moglie, un pesca­tore, un dipinto di Monet. L’anziana che con la mano ruba tre vasetti di yogurt. Il diret­tore che firma la denun­cia. Reati? È un per­corso ini­zia­tico, una rit­mica car­rel­lata tra mani che lavo­rano, dita che tam­bu­rel­lano sul tavolo, «e i gomiti sul davan­zale di uno che guarda fuori fuman­dosi una siga­retta». Il turno è finito? Allora per­ché que­sto odore di muffa? I versi di Fran­zin dicono in poe­sia una con­di­zione oscu­rata, la con­di­zione ope­raia, ora anche con­di­zione pre­ca­ria. «Un mese qua, due là, quando va bene». E qual­cosa di molto grave: C’è «quella che non ritorna più a casa dal lavoro. Rimane una mela sopra il banco, / – fra il metro e il vasetto con le biro – / rossa». Scri­vere: quel fare che, a con­fronto d’un colpo di mazza, sem­bra una folata di vento e invece trac­cia sol­chi pro­fon­dis­simi. Fran­zin lo sa e richiama le cose con il loro nome, anche là dove svela il rischio, il fal­li­mento. Così rotola il mondo ai piedi di chi scrive, a terra, ma è come se finisse in alto, in altissimo.
Sarà per que­sto get­tarsi in alto, sarà per que­sto volare via che tra le pagine di Sesti/Gesti viene in soc­corso un titolo, quasi un con­si­glio: Arte e Àe. Arte e Ali. Come spo­stan­dosi aleg­giando in un cielo ter­re­stre, cioè den­tro al «gri­gio dei capan­noni», echeg­gia il nostro tempo coi suoi lau­reati in fab­brica. Men­tre fuori, al corso di manua­lità crea­tiva, la mae­stra Car­men Dorigo «inse­gna / a donne e ragazze a model­lare una colomba / bianca con un tova­gliolo di carta».

Fonte: il manifesto

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.