La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 16 agosto 2015

Pensieri sulla dignità della politica

di Anna Foggia
Sono veramente tante le brutalità che ho ascoltato e letto negli ultimi giorni a proposito dei migranti, magari dette e scritte da gente che condanna con veemenza gli abbandoni degli animali, ma poi dichiara di voler abbandonare esseri umani alla peggior sorte.
Penso che sia vicino all’impossibile discutere con chi alleva rettili dentro la testa(cit. William Blake). Eppure, il mio ruolo nella comunità, come donna, madre, insegnante e amministratore pubblico, mi ricorda che non sarebbe corretto omettere di chiedersi come sia accaduto che, oggi, gli allevatori di rettili siano in così gran numero.
Sento profondamente di dover chiedere un confronto a chi dovrebbe, anzi, avrebbe dovuto, presidiare l’umanità, la giustizia sociale, la legalità, la democrazia, la cultura, insomma, tutti i valori espressi dalla nostra Costituzione, che tutelano le persone senza distinzione alcuna.
Questo è quanto sento, dopo sei anni di esperienza in un’Amministrazione pubblica, in un governo locale, in cui, occupandomi di politiche sociali, ho lavorato avendo come bussola di orientamento il criterio delle persone prima di tutto, in rappresentanza di una politica che ha fatto della promozione dei diritti il suo principio guida.
E proprio sui diritti, due parole sono necessarie. In questi sei anni ho incontratoquasi quotidianamente persone che non sono più in condizione di esercitare diritti di nessun tipo, perché sono state private di ogni dignità. Persone private di ogni diritto sociale.
E di diritti sociali io non sento più parlare, ormai da un pezzo, da chi invece, nelle sedi politiche e istituzionali, avrebbe il dovere di blindarli e renderli il cardine, il perno, il primo fondamento di un Paese civile.
I diritti sociali non sono più in agenda, non se ne parla nei documenti politici, negli interventi pubblici, sono dimenticati, ignorati, disconosciuti. Quei diritti sociali che gli studiosi del welfare o lo stesso Don Ciotti ci ricordano sistematicamente – e sistematicamente inascoltati- sono abilitanti dei diritti civili e politici: senza diritti sociali non c’è cittadinanza, non c’è scelta.
Chiara Saraceno (*) richiama Richard Titmuss, scienziato sociale inglese, secondo il quale si può parlare di welfare state quando “non solo la maggior parte dei lavoratori, ma dei cittadini, se non tutti, gode di diritti sociali. Per essere pienamente cittadini, non basta avere i diritti civili, che sono i primi arrivati, e neppure i diritti politici; bisogna avere i diritti sociali perché sono quelli che abilitano a esercitare anche gli altri. Perché se non ho ricevuto un’istruzione adeguata, come posso esercitare il diritto civile della libertà di pensiero? Se non ho potuto sviluppare le competenze per capire un programma politico e discuterlo, come posso esercitare il diritto politico di voto o quello di concorrere alla formazione delle decisioni? I diritti sociali non solo sono qualcosa in più, ma sono abilitanti gli altri diritti”.
Questa abilitazione è la condizione di una società libera e democratica. Ma, come diceva Ligabue in una canzone, ho perso le parole; ho esaurito il fiato a cercare di far comprendere la mortificazione che si prova quando si ha davanti un uomo di settant’anni che a stento trattiene le lacrime per dire che non ha più lavoro, che vive con 270 euro al mese, che dorme in macchina, ha la moglie appoggiata da un’amica e il figlio morto in un incidente. Oppure una nonna affidataria 65enne che non riesce a offrire le cure necessarie al proprio nipotino disabile, figlio di una figlia tossicodipendente.
O una donna il cui marito le usa violenza quotidiana e viene costretta a mangiare sul tappeto mentre lui cena a tavola con i bambini. O una madre di tre figli costretta a vivere con 650 euro spezzandosi la schiena all’alba a far le pulizie negli uffici dall’altra parte della città. E un altro uomo ancora che dorme in macchina da quando è stato licenziato dal ristorante in cui ha lavorato trent’anni. E una donna anziana che vive in una baracca senza acqua potabile e servizi igienici. E il padre di un ragazzo, non proprio più ragazzo, con diagnosi psichiatrica, che attende da anni l’attivazione di un servizio risocializzante, i cui fondi non sono mai arrivati e vede ogni giorno di più approdare la propria famiglia ad una irreversibile deriva. O una madre di tre figli, non ancora quarantenne, che ha scoperto di avere una malattia genetica che la sta conducendo alla paralisi, il cui marito è stato licenziato ed oggi non sono in grado di pagare l’affitto, nutrire la famiglia, e di seguire le cure per rallentare la degenerazione della sua malattia.
Sono solo alcune delle persone che ho incontrato nell’ultimo mese. Se vado indietro, l’elenco sarebbe inesauribile, attraverso i tanti che ormai neanche vengono più a cercare aiuto ai servizi sociali, perché hanno perso ogni speranza e finiscono per provare vergogna (!!!) della loro condizione. Persone rapinate della loro umanità, a cui non sappiamo dare nessuna risposta che gliela restituisca.
Quando parlo con loro, in un primo momento provo dolore, umiliazione, rabbia. Poi comincio a pensare a cosa poter fare, quali servizi cercare, con chi consultarmi per formulare una risposta, anche se parziale, anche se limitata, temporanea. Quando ci si attiva, capita che da cosa nasce cosa, magari si comincia a fare in qualche modo… tutto, sia chiaro, sempre inventato di volta in volta nella rete di “umani”, istituzionali e non, organizzati e non, che costituiscono la comunità di pratica radicatasi nel tempo e che è l’unica risorsa che oggi, di fatto, protegge –con le unghie e con i denti – quel welfare minimale che c’è dal suo definitivo disfacimento.
Percorsi condivisi e sentimenti comuni a chi sta dentro queste storie per vocazione e professione, spesso operatori sociali e altri amministratori, con cui ci scambiamo esperienze, conoscenze e con i quali, insieme, ci scontriamo contro il muro di gomma di un apparato amministrativo, politico e istituzionale cieco e sordo, che ti restituisce tal quale l’esperienza che gli porti, senza prenderne mai coscienza e conoscenza per trasformarla in un impegno, un programma, un intervento di sistema che produca risposte vere, tangibili, a più livelli.
E allora mi chiedo: chi doveva, chi deve, chi dovrebbe offrire delle risposte di sistema, oggi e in prospettiva? Chi doveva, chi deve, chi dovrebbe promuovere una cultura che sia credibile e che non generi masse di homuncoli desiderosi di riscattare le loro collere lasciando affogare uomini, donne e bambini nel Mediterraneo? Chi doveva, chi deve, chi dovrebbe offrire, nel contempo, soluzioni concrete, praticabili, organizzabili immediatamente che non si riducano soltanto a recriminazioni su leggi inadeguate o rimproveri ai governi di turno che non hanno recepito le loro illuminate sollecitazioni?
Non parlo di una rivoluzione impossibile, ma di un onesto, puntuale e responsabile lavoro quotidiano che si nutra di un contatto permanente col “vivo corpo sociale” (cit. Adriano Olivetti).
Un corpo sociale che oggi il ceto politico dimostra di non conoscere se non per farvi appello nei propri accorati discorsi, in gare di retorica sui social media o nelle solite assemblee, al contempo autofustiganti e autocelebrative, alla presenza sempre degli stessi, in cui il rituale converge di regola in quelle autoassoluzioni, di cui la politica delle anime belle è divenuta maestra.
Basterebbe semplicemente avere come parametro il bene comune per eccellenza, che è la dignità delle tante, troppe persone ormai disumanizzate. Per usare il lessico popolare, basterebbe una politica human orienteed, non più self orienteed.
Una politica che facesse uno sforzo di umiltà e ammettesse che gli strumenti che continua ad usare sono sempre gli stessi – pur se ribattezzati ciclicamente con nuovi nomi e traslocati in nuove stanze – e che si sono rivelati fallimentari proprio perché sono responsabili (si, lo sono!) della situazione attuale, a partire da quei personaggi che disdegna e disconosce, ma che non si sono certamente materializzati all’improvviso, autoproducendosi dal nulla; anche i funghi, quando spuntano, rappresentano il prodotto di una vita vegetativa durata molto tempo…
Come insegnava lo psicologo Maslow, “la tentazione, se l’unica cosa che hai è un martello, è di trattare tutti i problemi come se fossero chiodi“. E allora andrebbe sostituito il martello con la responsabilità, etimologicamente intesa come abilità di dare risposte. Del tipo che, dinanzi ad ogni questione, “non si esce dalla stanza se non si trova una risposta efficace”.
E la risposta efficace è quella che tutela la dignità di ognuno, nessuno escluso.

(*) Intervista di Roberto Camarlinghi a Chiara Saraceno, pubblicata nel numero 289 (maggio 2015) della rivista “Animazione Sociale”, il mensile per operatori sociali edito dal Gruppo Abele.

Fonte: comune-info.net

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