di Roberto Volpe
Non è necessario essere lettori troppo assidui di quotidiani e notiziari italiani e internazionali per imbattersi frequentemente in qualche commento più o meno estemporaneo su quanto accada nei paesi nordici. Si tratta di un vero e proprio genere letterario, spesso più parente della fantascienza che della cronaca, tenuto assieme da un filo conduttore, il concetto di eccezionalismo: ragioni storiche e geografiche, culturali, magari etniche renderebbero la Scandinavia – termine che si usa spesso un po’ a sproposito – non solo “diversa” ma radicalmente incomparabile con altrui esperienze nel resto del Continente e del mondo.
Partendo da questo presupposto non appare strano che, nel discorso pubblico contemporaneo, due narrative radicalmente differenti coesistano e persino si contaminino: una irenica che essenzialmente dipinge queste terre come una sorta di paradiso socialista-libertario, e un’altra che di converso mette l’accento su un “paradiso perduto”, caduto vittima delle sue stesse contraddizioni e lati oscuri.
Queste narrative non sono particolarmente utili a comprendere perché la modernità nordica abbia assunto le forme che oggi ha, e perché essa abbia dato risultati ampiamente desiderabili in termini di prosperità economica, eguaglianza e coesione sociale, vitalità democratica e culturale.
Queste narrative non sono particolarmente utili a comprendere perché la modernità nordica abbia assunto le forme che oggi ha, e perché essa abbia dato risultati ampiamente desiderabili in termini di prosperità economica, eguaglianza e coesione sociale, vitalità democratica e culturale.
Per questo letture come Danimarca, il volume pubblicato per Unicopli da Paolo Borioni insieme allo storico danese Niels Finn Christiansen, non possono che essere accolte con soddisfazione da chi abbia per la materia qualcosa di più che un interesse estemporaneo: sono una gradita occasione per dare uno sguardo più approfondito e un respiro più ampio alla riflessione.
Il volume è eminentemente una storia politica, cosa che in certi tratti, quando ci si occupa di partiti e politica parlamentare, si traduce in una vera e propria cronologia di piccoli scostamenti elettorali, rimpasti e “ribaltoni”. Il lettore si troverà di fronte a un sistema partitico assai diverso, per frammentazione, volatilità e dinamismo, da quelli di democrazie corporative più studiate come quella tedesca. Queste caratteristiche della partitocrazia danese sono del resto ben note alla cultura popolare, tanto da aver fatto da sfondo a una serie televisiva di successo internazionale (per i non adepti, “Borgen”).
Oltre che sulla cronologia, il libro indulge a lungo su diversi argomenti teorici che ne costituiscono l’elemento più qualificante: significativi specie perché spesso ben poco conosciuti fuori da quei confini, o trattati sulla base di categorie stereotipiche se non direttamente disingenue.
Come prima cosa, il lettore scoprirà che, in termini di sviluppo democratico, la Danimarca è stata tutto fuorché un paese precursore: non si può parlare di democrazia parlamentare fino addirittura al 1901. Sotto un governo autoritario, conseguenza di una guerra persa, un nuovo pensiero e pratiche politiche si sviluppano al di fuori delle deboli arene (poco) rappresentative: in un paese che ha visto uno sviluppo industriale molto tardivo, e in cui il settore agricolo conserva un ruolo cruciale persino oggi, tra i piccoli coltivatori nelle campagne si sviluppa una fitta rete di associazionismo, in genere religioso, venato di sentimenti peculiari rispetto ai corrispettivi nel resto d’Europa: intensamente patriottico ma non nazionalista etnico, istintivamente anti-autoritario, piuttosto anti-statalista, di stampo marcatamente democratico.
Molto interessanti sono le considerazioni su come questo sentimento di forte autonomia della società civile abbia davvero pervaso la società danese dei decenni successivi: chiunque abbia vissuto da quelle parti sa quanto il ruolo delle libere associazioni, dai fortissimi sindacati e le casse di disoccupazione da loro gestite, alla pletora di gruppi di interesse e volontariato, sia pervasivo e riconosciuto dalla popolazione – e quanto questo sia diverso da una narrazione dominante che vede la Scandinavia come una specie di terra promessa dello statalismo.
La cosa ha conseguenze cruciali in quanto, secondo gli autori, siamo di fronte a un elemento strutturante della democrazia danese, nel senso di democrazia parlamentare ma anche e soprattutto al di fuori di essa: una “democrazia negoziata” diffusa e ampiamente partecipativa, in cui un ampio spettro di interessi distinti si incontra, si scontra, e giunge a compromessi anche difficili. La scienza politica tende a chiamare questo tipo di democrazie “consensuali”: il termine va preso con le molle perché il conflitto non è certo soppresso o esternalizzato, semmai interiorizzato e metabolizzato.
Da questo ambiente nasceranno due distinti movimenti partitici liberali, l’uno agrario e riformista, l’altro più urbano e radicale, agenti primari del processo di democratizzazione, che prima dell’affermarsi del movimento operaio rappresentavano dunque la sinistra dello spettro politico. Questi due partiti esistono ancora e portano ancora quello stesso nome, dando vita al più noto dei paradossi della politica danese: un partito liberal-conservatore mainstream chiamato “Sinistra”, e un più piccolo movimento, espressione quasi per antonomasia di un certo radicalismo “centrista” e borghese di nome “Sinistra Radicale”. Le forze più vicine alla monarchia e alla grande proprietà terriera, accettando il gioco democratico, daranno vita al Partito Conservatore del Popolo, oggi il più piccolo partito rappresentato in Parlamento, ma capace di esprimere il primo ministro per quasi tutti gli anni ‘80. A questi tre partiti, ovviamente, presto e impetuosamente si aggiungerà la Socialdemocrazia, che pur non assumendo mai una posizione di assoluta dominanza (come talora accaduto nei vicini settentrionali) diventerà in pochi anni l’attore più importante del sistema.
I quattro “vecchi partiti”, i loro uomini e donne e le loro alterne fortune sono i protagonisti principali di questo libro, nel corso degli anni accompagnati da pittoreschi attori secondari capaci di attrarre grandi quantità di voti (il Partito del Progresso negli anni ‘70, la sua ormai celebre mutazione Dansk Folkeparti negli ultimi anni), influenza parlamentare e governativa (scissioni socialdemocratiche, “socialisti popolari”, persino georgisti), talvolta nessuna delle due cose (comunisti “moscoviti” e nazionalsocialisti in primis, ma anche alcuni curiosi partitini di sinistra radicale con nomi tipo “Rotta Comune”). Come chi vi scrive non si stancherà mai di far notare, questa frammentazione, organizzata largamente lungo l’asse destra-sinistra, non è mai davvero risultata in quelle condizioni di profonda instabilità e immobilismo tipiche dei sistemi sud-europei a noi più noti: regole istituzionali intelligenti, una lunga tradizione di governi di minoranza e una diffusa pratica di compromessi trasversali a geometria variabile hanno risparmiato alla Danimarca il destino di quei paesi che, incapaci di scegliere tra istituzioni democratiche maggioritarie o consensuali, si sono ritrovati a non avere né le une né le altre. Nel caso danese (e scandinavo) possiamo, a seconda dei punti di vista, spesso dire addirittura di vedere coesistere entrambe.
Nel testo sono presenti anche alcune considerazioni sulla politica economica che mi preme segnalare, in quanto espressione di un certo pensiero socialdemocratico a mio avviso poco conosciuto alle nostre latitudini, o nel peggiore dei casi citate a sproposito. Meccanismo chiave è quello che viene qui definito “nesso competitività-welfare”: ossia la spesa sociale non come espressione di una mera “volontà etica di uguaglianza” o come stimolo (gli “stabilizzatori automatici” della letteratura economica), ma prima di tutto come elemento mirato all’accrescimento dell’occupazione e dei salari, in un’ottica di riforma del capitalismo nel senso della creazione di una condizione di parità tra capitale e lavoro.
Alti salari andavano mantenuti non tramite rivendicazioni unilaterali in settori protetti, ma rendendo possibile l’emergere di un forte settore produttivo privato, aperto alla concorrenza internazionale e spinto a intraprendere strategie competitive innovative, comunque non basate sulla depressione salariale. Al contempo, grazie alle elevate entrate fiscali (cosa che negli anni, indipendentemente dal colore politico dei governi, si tradurrà anche in notevole crescita dell’imposizione diretta e indiretta), sarebbe stato possibile mantenere un forte settore pubblico, largamente esentato da compiti produttivi, ma fornitore di servizi cosiddetti di “demercificazione”, in grado di sostenere il reddito anche dei lavoratori più poveri e creare occupazione a loro volta.
Gli autori usano una citazione (apocrifa?) dell’ex Ministro delle Finanze, oggi presidente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Mogens Lykketoft: “O si riducono i salari oppure si elevano le competenze al livello dei salari. […] La via che scegliamo è la seconda”. Risultato naturale sono elevati investimenti in ricerca e sviluppo (pubblici e privati), nell’istruzione obbligatoria e superiore, in politiche attive e formazione: obiettivi che troviamo stampati a lettere cubitali in documenti programmatici di istituzioni internazionali e partiti politici di ogni colore, e puntualmente ridefiniti ogni qual volta si sia dimostrato impossibile raggiungerli.
Si tratta senz’altro di una tesi affascinante che andrebbe quantomeno dibattuta in termini più seri. Questo libro ci mostra che simili argomentazioni, con il loro sentore sorprendentemente contemporaneo, sono presenti nel pensiero politico danese perlomeno dai tempi della Grande Depressione: la famosa flexicurity, insomma, non è qualcosa che è emerso dal nulla negli anni ‘90, ma un frutto di questa linea di pensiero pluridecennale. Gli elementi istituzionali che rendono la Danimarca tanto ammirata anche nelle cerchie liberali esistono da decenni [la famosa “libertà di licenziare” addirittura dal 1899, aggiungo], e le celebrate riforme del lavoro di vent’anni fa, con la loro particolare enfasi sulle politiche di attivazione, ad avviso degli autori non sono state elemento di rottura con le pratiche dei “Trenta Gloriosi” ma addirittura un ritorno a ricette più tradizionali dopo un decennio di governo conservatore.
Insomma, quando in un dibattito vengono fuori le catchphrases “modello danese” e “flexicurity”, è fondamentale far notare che l’accusa di “avere molto più a cuore laflexibility della security” non è una mera questione procedurale. Il modello danese semplicemente non esiste, e difficilmente avrebbe dato i risultati che conosciamo, senza un consistente elemento di sostegno al reddito da impiego: sia sul posto di lavoro, grazie a politiche volte al mantenimento di salari alti e crescenti; sia in mancanza di esso, grazie alla concessione di benefit di disoccupazione davvero generosi – e, notare bene, distinti da quei trasferimenti, su base universale e non assicurativa, rivolti a coloro che si trovino in condizione di serio disagio economico: questi ultimi sono molto meno generosi e certo non un’adeguata sostituzione di un reddito da lavoro – e l’offerta di concrete possibilità di reinserimento nel mondo del lavoro o della formazione.
Una volta che accettiamo questi presupposti – ossia, che il modello danese non è “libertà di licenziare” più qualche imprecisato “sostegno al reddito”, ma una struttura “triangolare” che ha bisogno tutte le sue giunture siano forti e stabili per stare in piedi – ci rendiamo conto che una buona parte del discorso politico contemporaneo sulle politiche sociali e del lavoro è nel migliore dei casi fragile, il più delle volte tendenziosa, e nel peggiore priva di senso. Concedere strumenti di flessibilità senza contrappesi sposta i rapporti di forza e può non assicurare ricadute positive in termini di investimenti e innovazione; d’altro canto, appare difficile immaginare che redditi da lavoro o da welfare che ammontino a semplice sussistenza siano davvero in grado di generare “sicurezza”.
Per concludere, c’è qualcosa che in questo libro non si trova, o perlomeno non nel grado di approfondimento destinato al resto: cosa accade alla Danimarca oggi. Al contrario di quanto sembrano affermare alcuni recenti articoli a riguardo, il paese non è caduto in preda a un qualche delirio fascista: certo è che le sfide presentatesi negli ultimi decenni portano una seria minaccia a equilibri consolidati, e nella popolazione si è diffusa una certa inquietudine.
Il capitolo finale si occupa dunque delle due principali linee di frattura: una è la polemica anti-fisco, portata avanti dai partiti di centro-destra (centrale il concetto di “crescita zero”, nell’imposizione fiscale e nel settore pubblico), e tradottasi in politiche che hanno messo notevole pressione sullo stato sociale e accelerato processi di deterioramento (come l’esplosione dell’indebitamento privato) che la crisi post-2008 ha reso ancora più insidiosi.
La seconda, al momento centrale, è quella dell’immigrazione, tema che porta prima di tutto a parlare del ruolo fondamentale avuto nell’ultimo quindicennio dalla destra radicale del Dansk Folkeparti. DF è un partito interessante da osservare per via del suo chiaro profilo basato sullo “sciovinismo del welfare”, che taglia lo spettro destra-sinistra conquistando molti tradizionali voti socialdemocratici, “segnatamente quell[i] più dipendent[i] da un’idea protettiva del welfare state”. Quando si tratta di formare il governo e votarne il bilancio, però, il partito si colloca di fatto a destra, rinunciando a prendere responsabilità dirette e preferendo sostenere il centro-destra tradizionale dall’esterno, anche a costo di rompere promesse elettorali.
La capacità di questo partito di influenzare il dibattito politico, sia a destra che a sinistra, è stata fino ad oggi grande: la difficile legislatura iniziata nel 2015, in cui DF è il principale partito a sostegno del governo – pur non facendone parte! – sarà forse in grado di dirci fino a che punto gli elettori saranno in grado di tollerare questa ambiguità. Le questioni che Borioni e Christiansen si pongono nell’ultima pagina, ossia se la Danimarca riuscirà a mantenere in vita la sua ricetta di alta competitività e alti salari, e se il “particolare sistema di consenso e integrazione” tra cittadini, società civile e istituzioni riuscirà a perpetuarsi in futuro, rimarranno invece di certo aperte, offrendo una buona guida per l’osservatore esterno desideroso di apprendere qualcosa di più su questo “paradiso perduto”, magari prima di tutto di che “paradiso” stiamo parlando, e di cosa, davvero, stia andando perduto.
Fonte: Pandora Rivista di Teoria e politica
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