di Laura Pennacchi
Abbiamo vitale bisogno non solo di uno Stato, ma di uno Stato strategico il quale, oltre che indirettamente – mediante incentivi, disincentivi e regolazione –, interviene direttamente, cioè guidando e indirizzando intenzionalmente ed esplicitamente con strumenti appositi. Qui c’è una rottura da operare non soltanto con l’antistatism del neoliberismo, ma anche con la più o meno larvata diffidenza verso l’intervento pubblico – motivata con il rischio di «cattura» da parte di interessi politici e partitici e con le inefficienti degenerazioni burocratiche e clientelari che ne possono derivare – coltivata pure tra varie forze di centrosinistra, incapaci di ragionare e di parlare in termini di «teoria» dello Stato e delle istituzioni pubbliche.
Del resto, tale stato delle cose – in cui registriamo una singolare coincidenza tra impostazioni liberali tradizionaliste e impostazioni di sinistra meccanicistiche – ha origini remote, se si pensa alla polemica che Polanyi condusse con il pensiero marxista ortodosso che vedeva nello Stato il «comitato esecutivo della borghesia», mentre egli coglieva la consustanzialità di economia capitalistica e Stato, interprete degli interessi generali della società, e denunziava la finzione ipostatizzante l’autosufficienza del mercato alla base dell’economia neoclassica.
Nell’avvicendarsi di tutti i grandi cicli tecnologici e nella spinta verso le innovazioni fondamentali l’intervento dello Stato si è rivelato e si rivela decisivo, non solo «facilitatore» e alimentatore di condizioni permissive, ma creatore diretto, motore e traino dello sviluppo. Come sottolinea Mariana Mazzucato (Lo Stato innovatore. Sfatare il mito del pubblico contro il privato, Laterza, Roma-Bari 2014), lo Stato ha giocato un ruolo chiave nell’evoluzione del settore informatico, di Internet, dell’industria farmaceutica e biotech, delle nanotecnologie e delle emergenti tecnologie verdi. Proprio l’estensione del cambiamento tecnologico (Antonelli, Technological Congruence and Productivity Growth, in M. Andersson, B. Johansson, C. Karlsson, H. Lööf (eds.), Innovation and Growth – From R&D Strategies of Innovating Firms to Economy-wide Technological Change, Oxford University Press, Oxford, 2012) e l’emergenza di nuovi settori mostrano che lo Stato non interviene solo per contrastare le market failures o per farsi carico della generazione di esternalità, ma rispondendo a motivazioni e obiettivi strategici. Infatti, l’operatore pubblico è l’unico in grado di porsi la domanda: «che tipo di economia vogliamo?». A partire dal porsi tale domanda lo Stato è in grado di catalizzare una miriade di attività e di mobilitare più settori congiuntamente generando il «coinvestimento» necessario, per esempio per andare sulla Luna (per cui fu necessario interrelare le attività di più di 14 diversi settori). L’emergenza di simili complessi di attività si deve a un intervento pubblico che non si limita a neutralizzare le market failures, ma che inventa, idea, crea lungo tutta la catena dell’innovazione.
Secondo la visione standard le imperfezioni, e relative esternalità, del mercato possono insorgere per varie ragioni, come l’indisponibilità delle imprese private a investire in «beni pubblici» – quali la ricerca di base, dai rendimenti inappropriabili e dai benefici accessibili a tutti –, la riluttanza delle aziende private a includere nei prezzi dei loro prodotti il costo dell’inquinamento il che dà luogo a esternalità negative, il profilo di rischio troppo elevato di determinati investimenti.
Se ne deduce che lo Stato dovrebbe fare cose importanti ma limitate, come finanziare la ricerca di base, imporre tasse contro l’inquinamento, sostenere gli investimenti infrastrutturali. Collegate a questa teoria sono le tesi che il ruolo dello Stato dovrebbe essere prevalentemente di fornire «spinte gentili» (nudges) (Sunstein, Thaler,Nudge. La spinta gentile. La nuova strategia per migliorare le nostre decisioni su denaro, salute, felicità, Feltrinelli, Milano 2009) o di regolare cercando le regole più semplici possibili, assumendo che semplice sia equivalente a duttile, intelligente, libero, efficace, creativo. Ma uno dei difetti maggiori di tali teorie – che hanno tuttavia loro campi di validità – è che da una parte immaginano interventi pubblici «circoscritti» e «occasionali» (come circoscritti e occasionali sono i fallimenti del mercato) mentre essi nella realtà sono «pervasivi» e «strutturali», dall’altra parte ignorano un elemento fondamentale della storia delle innovazioni: in molti casi decisivi il governo non ha soltanto dato «spintarelle» o fornito «regolazione», ha funzionato come «motore primo» delle innovazioni più radicali e rivoluzionarie. «In questi casi lo Stato non si è limitato a correggere i mercati ma si è impegnato per crearli» (Mazzucato, 2013, p. 98).
Ovviamente sostenere tutto ciò non significa non vedere i limiti e le carenze dello Stato, quanto le pubbliche amministrazioni siano oggi spesso burocratizzate, inefficienti, dequalificate. Al contrario, significa prendere incisivamente atto di tale situazione per tentare di rovesciarla. Innanzitutto occorre denunziare il depotenziamento e il depauperamento dello Stato indotti dalle lunghe pratiche neoliberiste. L’imponente arretramento dello Stato da esse voluto – giustificato con l’esaltazione delle virtù dell’impresa privata e con la condanna pregiudiziale dell’amministrazione pubblica come forza al minimo inerziale – si è risolto con un prosciugamento delle sue energie. Lostarving the beast ha talmente affamato la «bestia governativa» da averla quasi tramortita. Nel caso dell’Italia, il declino economico, sociale e culturale, il mancato sviluppo della ricerca scientifica e tecnologica, la stagnazione della produttività – su cui ha molto influito il ridimensionamento della grande impresa, con la scomparsa di fatto dell’impresa a partecipazione statale in conseguenza delle privatizzazioni (Artoni, Un profilo d’insieme, in R. Artoni (a cura di), Storia dell’IRI 4. Crisi e privatizzazione 1990-2002, Laterza, Roma-Bari 2013) – si debbono in non piccola misura proprio al depauperamento dell’iniziativa collettiva e alla dissoluzione delle politiche pubbliche, che è stato l’obiettivo esplicito dei governi Berlusconi-Tremonti.
Peraltro nella prospettiva dell’attenzione al ruolo centrale esercitato nei processi economici dallo Stato e dalle istituzioni pubbliche le questioni di redistribuzione e di eguaglianza possono essere trattate ricongiungendole alle questioni di allocazione, di struttura, di produzione, di accumulazione, la mancata considerazione delle quali talvolta indebolisce le analisi apprezzabilissime degli studiosi delle diseguaglianze. Prendiamo, ad esempio, un libro importante come quello di Piketty (Le capital au XXI siècle, Seuil, Paris 2013), di cui sono indubbi i moltissimi meriti, a cominciare dalla contestazione della tesi che lo sviluppo economico conduca evolutivamente e spontaneamente al superamento delle diseguaglianze le quali, anzi, aumentano nel tempo, per di più assumendo un accentuato carattere «patrimoniale» derivante dalla relazione r > g (il saggio di rendimento del capitale supera sistematicamente il tasso di crescita), alla base del riprodursi di condizioni intimamente autocontraddittorie del sistema capitalistico. Commentando il meeting annuale dell’American Economic Associationtenutosi a Boston nel gennaio del 2015, dove folle di studenti hanno inneggiato alle tesi di condanna delle diseguaglianze di Piketty, vari commentatori hanno rilevato come improvvisamente gli economisti, dopo aver spazzato via dalle scienze sociali gli storici e i sociologi, siano costretti a discutere di categorie di filosofia politica.
Piketty ha ricevuto molte critiche astiose e (invidiose) a cui egli ha fornito puntuali risposte. Tuttavia si tarda a porre a fuoco la questione che davvero merita di essere discussa, vale a dire l’intreccio dell’analisi delle diseguaglianze con una osservazione degli elementi strutturali del funzionamento dell’accumulazione e della produzione del sistema economico capitalistico. Anche Piketty, infatti, si limita a una considerazione delle diseguaglianze come problema solo distributivo e redistributivo da trattare ex post, non anche problema allocativo da trattare ex ante perché attinente al funzionamento delle strutture, dell’accumulazione, della produzione. Nessuno vuole negare che la redistribuzione sia questione gravissima. Ma bisogna avere consapevolezza della profondità degli aspetti problematici del capitalismo che essa mette in gioco, il primo dei quali concerne il fatto che, se si punta a intervenire con le politiche redistributive a valle del funzionamento del mercato, una volta che il mercato ha redistribuito è molto difficile togliere i benefici a chi ritiene di averli meritati. Inoltre, posto che la «genialità», se così vogliamo chiamarla, del neoliberismo è stata di inventare un nuovo elemento autonomo di domanda – il consumo finanziato con debito – oggi il problema cruciale è intervenire politicamente su quell’intreccio tra assetti produttivi, finanza e redistribuzione che ha creato un elemento autonomo di domanda sfociato in sovraconsumo. E questo è un problema di allocazione e di struttura.
Del resto, c’è qualche correlazione tra tali mancanze e tratti «deterministici» dell’analisi di Piketty, la sbrigatività con cui egli considera le realizzazioni politiche – eredità del New Deal e della rivoluzione keynesiana – dei «trent’anni gloriosi» (rapidamente archiviate come una «parentesi» di eccezionale crescita in un trend di lungo periodo stagnante, senza chiedersi «chi» e «come» l’abbia generata e «chi» e «come» l’abbia sovvertita), la sua insufficiente chiamata in causa del neoliberismo (che è stato, invece, il movimento «politico» di destra che ha rovesciato i «trent’anni gloriosi»), in particolare delle sue specifiche responsabilità nella generazione e nell’esplosione delle diseguaglianze. Una critica simile alla mia è avanzata da Acemoglu e Robinson (The Rise and Decline of General Laws of Capitalism, MIT, «Working Paper» 14-18, December 2014), i quali contestano più complessivamente l’utilità di riferirsi, ricardianamente e marxianamente, a «leggi generali dell’accumulazione capitalistica» – conducenti ad approcci deterministici che danno agli aspetti materiali della vita economica una forza sovrastante tutti gli altri aspetti, sociali, culturali, politici – e sottolineano in particolare l’ignoranza, in Piketty, del ruolo centrale giocato, anche nella dinamica delle diseguaglianze, sia dalle istituzioni e dalle politiche (nel caso svedese, ad esempio, politiche socialdemocratiche di compromesso capitale/lavoro all’origine degli ottimi risultati egualitari), sia dall’evoluzione endogena delle tecnologie.
Il senso profondo di un rapporto più stretto tra redistribuzione e allocazione è evocato dagli studiosi dello «sviluppo umano» (si veda Kaplinsky, Innovation for Pro-Poor Growth: From Redistribution with Growth to Redistribution through Growth, in G.A. Cornia, F. Stewart, Towards Human Development, Oxford University Press, New York-Oxford 2014) con l’espressione redistribution trough growth (redistribuzione attraverso la crescita) – da preferire alla redistribution with growth (redistribuzione con crescita) – con la quale modificare i caratteri strutturali, altamente disegualitari, del dominante modello di crescita e della sua traiettoria dell’innovazione e del progresso tecnico (ad alta intensità di capitale, elevata intensità di scala, dipendenza da infrastrutture di rete qualitativamente complesse e rigide, lavoro iperqualificato, prodotti pensati per soddisfare i bisogni dei ricchi).
Questo è un estratto da La crisi e la riformabilità del capitalismo. Lavoro e investimenti per un nuovo modello di sviluppo, Introduzione di Laura Pennacchi al volume Riforma del capitalismo e democrazia economica. Per un nuovo modello di sviluppo, a cura di Laura Pennacchi e Riccardo Sanna con il coordinamento della Area delle Politiche di sviluppo della Cgil, Ediesse 2015. Il volume è stato presentato in Cgil il 2 dicembre.
Fonte: Rassegna sindacale
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