di Andrea Palladino
Carte segrete e acquedotti colabrodo; dighe iniziate e mai finite; un socio privato – la francese Veolia – che non vede l’ora di lasciare la Calabria, ma in cambio di un “condono”sul passato. E poi un finanziamento milionario della Depfa Bank, lo stesso istituto finanziario – controllato oggi dal governo tedesco – che sta bloccando per via legale il piano di riubblicizzazione dell’acqua a Latina. Tutto garantito da un contratto firmato 9 anni fa e ancora oggi secretato “per tutelare la banca, che non ha dato l’autorizzazione a divulgare il documento”, spiega il direttore finanziario di Sorical, Simone Lo Piccolo, che nega l’accesso agli atti invocando la privacy.
Sorical Spa è uno dei tanti disastri della gestione mista pubblico-privata degli acquedotti: vende l’acqua ai Comuni della Calabria, gestisce le grandi infrastrutture e, con l’arrivo dei francesi, avrebbe dovuto incanalare con acquedotti moderni l’enorme quantità di acqua delle montagne calabresi. Dopo anni di pessima gestione, sono arrivati i commissari e il sistema idrico integrato è rimasto il grande sogno incompiuto. In pieno stile Salerno-Reggio.
Sorical, però, è anche uno dei principali clienti italiani di Depfa, la banca specializzata in derivati e finanziamenti degli enti pubblici europei, salvata nel 2014 da un fondo del governo tedesco, dopo essere finita nella bufera per via dei famigerati mutui subprime. Italia, Grecia, Spagna e Portogallo sono stati per anni il campo d’azione della banca, per un pacchetto di obbligazioni in mano a fondi internazionali che supera abbondantemente il miliardo di euro, garantito da una serie di complessi – e rischiosi – derivati. In Calabria e a Latina, Depfa ha avuto come partner principale Veolia; in Toscana i suoi compagni di avventura sono la romana Acea (al 51% del Campidoglio) e il Monte dei Paschi di Siena. Qui l’acqua, da tempo, è appannaggio del Giglio magico renziano. A partire da Publiacqua, il gestore della provincia di Firenze guidato negli anni passati da Erasmo D’Angelis, oggi direttore dell’Unità, e che nel cui cda è stata per diverso tempo Maria Elena Boschi.
I Comuni dell’ambito idrico della Provincia di Pisa, invece, nel 2002 hanno affidato la gestione del servizio alla Acque Spa, partecipata – come in gran parte della Regione – da Acea. Quando è il momento di mettere i soldi per gli investimenti previsti dalla concessione, però, la società romana contatta Depfa. Una sigla decisamente di moda nel nostro Paese all’epoca, quando il governo – attraverso il ministero delle Infrastrutture – promuoveva ovunque gli strumenti finanziari più sofisticati per realizzare gli acquedotti, senza però evidenziarne i rischi. La banca di Dublino – affiancata da Mps, da alcuni istituti locali e dalla Cassa depositi e prestiti – presenta ai sindaci della provincia di Pisa le stesse condizioni che applicherà poco dopo a Latina e di cui Il Fatto si è occupato nei giorni scorsi: in cambio dei soldi, i Comuni hanno dovuto firmare un contratto di pegno che prevede un potere totale per gli investitori. Una serie di clausole che consentono a Depfa, in caso di “evento rilevante”, di esautorare il potere d’indirizzo strategico dei sindaci sostituendosi ad amministrazioni elette dal popolo. I possibili casi di “evento rilevante” sono elencati con precisione e, tra questi, a Pisa, c’è anche la possibilità che la quota di Acea scenda sotto al 45%. Nessuna ri-pubblicizzazione, dunque, sarà mai possibile in quella zona. Eppure la volontà degli elettori di Pisa e dintorni al referendum del 2011 fu chiara: il 95,41% votò a favore dell’acqua pubblica, con un’affluenza al 65,08%. Una volontà popolare tradita l’ultima volta lo scorso anno, quando i Comuni presenti nella società Acque Spa hanno confermato, senza grande clamore, le regole del finanziamento. Incluso un complesso e voluminoso contratto in inglese con tanto di clausole riguardanti sofisticati strumenti finanziari e le norme che bloccano ogni possibilità di cambio di strategia.
Dove Depfa non è arrivata ha agito Mps, stretta alleata all’epoca sia di Acea sia della banca irlandese, insieme a un istituto finanziario ormai famoso, Popolare Etruria. È il caso di Arezzo, la provincia dove per la prima volta in Italia è stato privatizzato il sistema idrico integrato col modello, di origine francese, del partenariato pubblico-privato. Era il 1999, la gestione comunale passa nelle mani di Nuove Acque, partner privato la Suez e, poco dopo, l’immancabile Acea.
Come in praticamente tutte le esperienze simili in Italia, anche qui il privato mette i soldi per gli investimenti indebitando la società mista, attraverso lo schema del prestito in cambio di pegno delle azioni, comprese quelle dei Comuni. In questo caso entra in gioco un pool composto da BEI, Monte dei Paschi, Dexia e Etruria. È il 2005 e la gran parte dei Comuni approva: “Si consegna ai privati un potere assoluto. Con questa operazione la maggioranza pubblica di Nuove Acque diventa un guscio vuoto”, commentano i comitati locali in un documento che analizza l’operazione. Dunque anche qui, come a Latina, a Pisa e in altre province italiane, il voto per l’acqua pubblica si ferma davanti agli sportelli delle banche.
Nella Calabria degli accordi segreti, intanto, la giunta Oliverio annuncia di volersi riprendere la gestione idrica. “Io non sono stato nominato per liquidare la società, ma per rilanciarla”, spiega al FattoLuigi Incarnato, commissario di Sorical. “Vuole sapere una cosa sul mutuo Depfa? Mi sono informato e questi asset il governo tedesco li ha acquisiti pagandoli 16% del valore nominale”. Tradotto: il credito vantato da Depfa nei confronti dei gestori degli acquedotti oggi vale assai meno. “Quindi ricontratteremo tutto – dice Incarnato – facendo entrare in società i Comuni appena Veolia se ne va. Manca solo un passaggio, vogliono una manleva sui debiti (l’esclusione di responsabilità sul passato, ndr) e il presidente ci sta pensando”. Ma di mostrare quel contratto di finanziamento che pesa sulla società per ora non se ne parla. Acqua pubblica forse, trasparente non tanto.
Fonte: Il Fatto Quotidiano
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