di Richard Falk
Nel caso della politica estera a prima vista pare non ci sia di che scervellarsi. Hillary Clinton è esperta, informata, intelligente, internazionalista, nota e rispettata nel mondo. Per contro Donald Trump si dà ripetutamente la zappa sui piedi e su quelli degli altri; sembra non avere idea delle complessità del mondo; spara simili sconsiderate vanterie nazionaliste su come schiaccerà i nemici e mette in imbarazzo gli alleati. Tali atteggiamenti fanno paura a tutti ovunque, li rendono ostili e persino li inducono a chiedersi se i cittadini statunitensi in generale stiano collettivamente vivendo un episodio psicotico prendendo sul serio un candidato così eccentrico.
Scelta tra militarismo o isolazionismo
Tuttavia uno sguardo più da vicino rende meno ovvia, e più interessante, la scelta tra i due candidati, anche se non più incoraggiante, specialmente se l’attenzione è su ciò che l’elezione potrebbe significare per il Medio Oriente. Una delle poche posizioni coerenti assunte da Trump consiste nell’esprimere il suo scetticismo sugli interventi di cambiamento di regime nella regione, specialmente in Iraq e in Libia, e sulle relative costose illusioni di ex presidenti, e della Clinton, su politiche mirate a produrre democrazie. Come c’è da aspettarsi, Trump ha alcune goffe incoerenze nelle sue precedenti pronunce su questi temi se vi interessa controllare che cosa aveva da dire alcuni anni fa. Tuttavia la sua attuale opposizione a interventi militari in Medio Oriente è stata costantemente manifestata in tutta la campagna presidenziale. La sua posizione essenziale è sintetizzata nelle sue stesse parole: “Dopo quindici anni di guerre in Medio Oriente, dopo trilioni di dollari spesi e migliaia di vite perse, la situazione è peggiore di quanto sia mai stata prima”. Quella che segue, dunque, è la probabilità che Trump si opporrà a interventi in Medio Oriente a meno che sia presente un chiaro collegamento con una minaccia terroristica diretta contro gli Stati Uniti posta dall’ISIS e forse da al-Qaeda della Penisola Araba (AQAP).
La Clinton ha una costante storia da falco in politica estera, che ha fatto del suo meglio per tenere fuori dalla vista nella competizione alle primarie con Bernie Sanders, le cui idee progressiste erano sorprendentemente simili a quelle di Trump in questa questione centrale dell’intervento militare in Medio Oriente. Durante il suo periodo da Segretario di Stato (2009-2012), compresa la definizione della politica nei confronti di Russia, Cina, Afghanistan e in Medio Oriente, la Clinton ha premuto con forza in continuazione sul presidente Obama perché adottasse posizioni più militariste e aggressive, più visibilmente nella regione riguardo al coinvolgimento statunitense in Libia e in Siria.
Prima la stabilità o gli Stati Uniti?
E’ anche rilevante che la grandiosa strategia regionale della Clinton sia stata basata sul mantenere al potere dittatori amici persino di fronte a grandi rivolte popolari, rivelata con una certa forza nei suoi sforzi lobbistici di schierarsi dalla parte di Mubarak nella sua ora difficoltà con il popolo egiziano nel 2011. Anche se oggi minimizza il suo appoggio alla guerra d’aggressione del 2003 in Iraq, scatenata contro il regime di Saddam Hussein, ha chiaramente appoggiato al suo avvio la decisione più disastrosa della politica estera statunitense da quando gli Stati Uniti si schierarono così pesantemente a metà degli anni ’60 con la parte perdente nella Guerra del Vietnam. Non solo l’attacco all’Iraq causò molti morti, grandi devastazioni, grandi quantità di profughi e un duraturo caso all’Iraq e al suo popolo, ma la lunga occupazione a guida statunitense diffuse disordine oltre i confini iracheni e fu un’importante causa che contribuì alle origini e all’ascesa dell’ISIS.
Tuttavia, nonostante questi errori politici di giudizio della Clinton sul Medio Oriente, il mondo non sta comunque meglio con la mano salda della Clinton piuttosto che con l’estremamente impulsivo Trump? La sua macabra battura ha colpito duro riguardo a che cosa potrebbe significare questa distinzione: “Un uomo che puoi stuzzicare con un tweet non è un uomo cui puoi affidare armi nucleari”. Tale ansietà è intensificata non appena ci si rende conto che non ci sono contrappesi politici che limitino la capacità di un presidente statunitense di usare armi nucleari. Questo ci rende consapevoli di come le persone dovunque, nonostante il loro enorme interesse a una dirigenza statunitense prudente, non abbiano alcun ruolo nel determinare l’esito delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Può essere venuto il momento di prendere in considerazione un piano per consentire al mondo intero di avere un voto di qualche genere nelle elezioni nazionali statunitensi se l’ideale della democrazia globale e del primato della legge dovrà avere mai un qualche seguito politico.
Trump ha fatto numerose affermazioni sulle armi nucleari che non solo sfidano decenni di convinzioni occidentali diffuse, ma suscitano anche paura nei cuori delle persone, dovunque si trovino, compreso il Medio Oriente. Nella sua preoccupazione di conservare le risorse finanziarie statunitensi Trump ha suggerito che potrebbe non essere una cattiva cosa se Giappone e Corea del Sud sviluppassero armamenti nucleari propri e poi assumessero la responsabilità della propria sicurezza. Apparentemente ha chiesto a un amico: “Perché non possiamo usare le atomiche?” Vero, tali affermazioni non sono necessariamente indicative di ciò che Trump farebbe da presidente in Medio Oriente, ma neppure andrebbero ignorate. Trump sembra neo-isolazionista nell’ottica complessiva, il che significa minori impegni internazionali e una disperata ricerca di tagliare spese all’estero. E’ possibile che la sua indisponibilità a offrire un appoggio indiscusso al regime della non proliferazione che ha congelato lo status quo nucleare per decenni possa generare una rinnovata spinta a un graduale, totale disarmo nucleare, la sola soluzione decente e affidabile a lungo termine.
Ci sono altre preoccupazioni. Trump si oppone all’accordo sul nucleare iraniano, probabilmente l’iniziativa diplomatica più costruttiva assunta negli otto anni della presidenza Obama. Trump ritiene sia stato un accordo terribile che “ha restituito all’Iran 150 miliardi di dollari senza dare nulla a noi”. Stracciare l’accordo, o anche non essere all’altezza dei suoi impegni, mette a rischio il dispiegarsi dell’intero rapporto di normalizzazione dell’Iran in Medio Oriente e potrebbe tentare Israele di lanciare qualche genere di attacco preventivo contro strutture nucleari iraniane o anche di dare il via a una corsa agli armamenti nucleari estremamente pericolosa nella regione. Andrebbe notato, di passaggio, che sia Trump sia la Clinton si sono legati così fermamente all’albero dell’allineamento filo-israeliano da essere ciechi alla desiderabilità di promuovere una Zona Mediorientale Denuclearizzata, una proposta che gode del sostegno di ogni governo mediorientale, salvo Israele, e che probabilmente farebbe per la stabilità della regione più di ogni altra singola iniziativa.
Ideologia regressiva
Pensare che la Clinton sia più affidabile di Trump può essere più una questione di stile che di sostanza. Presumibilmente non si opponeva a dare a Israele semaforo verde per attaccare l’Iran nel corso del suo periodo da Segretario di Stato. Anche preoccupante è la sua ammirazione a lungo non celata per la distorta competenza di Henry Kissinger, e persino di Robert Kagen, considerato il membro più militarista dell’élite neoconservatrice e che, pur essendo stato indentificato in passato strettamente con i Repubblicani, ha appoggiato la Clinton e risulta agire come il consigliere più illustre della sua squadra di consulenti della politica estera. Non è certo una sorpresa che 50 specialisti della sicurezza nazionali autodefiniti Repubblicani abbiano pubblicamente appoggiato la Clinton contro Trump, ma è un segnale di quanto insolita sia diventata questa gara per la presidenza statunitense. Come è stato spesso osservato la Clinton è schierata con la dirigenza della politica estera/sicurezza nazionale che ci ha portato dove ci troviamo oggi, mentre Trump è un potenziale disturbatore che potrebbe perseguire politiche che causerebbero disintegrazione strutturale e con essa il collasso dell’ordine economico neoliberista, cioè del “Consensus di Washington”.
Anche Trump vanta i suoi incontri con Kissinger come una specie di certificazione dei suoi meriti che superano le sue qualifiche amatoriali per alte cariche politiche. Tuttavia le sue opinioni adottano linee di pensiero che probabilmente costituiscono un anatema per il suo stagionato maestro di real politik. La Clinton, ovviamente, ha riflettuto di più e più a lungo su tali questioni e in un tentativo di soddisfare tutti gli schieramenti scegliere quello che definisce “potere intelligente”, una miscela personalizzata di potere “duro” e “morbido” che si suppone risponda alle complessità della definizione della politica estera agli inizi del ventunesimo secolo. La formula della Clinton, non diversamente da quella di altri recenti candidati convenzionali negli USA, è mirata a compiacere quanto più possibile i signori della guerra del Pentagono, i maghi di Wall Street e i campioni di Israele, o almeno a non angosciare nessuno di questi tre nodi della supremazia geopolitica statunitense.
Con questi profili come sfondo, possiamo predire la politica estera della presidenza Clinton o Trump in Medio Oriente? E’ possibile fare ipotesi più affidabili sulla Clinton, perché ha già reso chiare alcune delle sue posizioni: un’intensificazione del sostegno alle forze siriane anti-Assad (ISIS escluso), un indurimento dei negoziati diplomatici con l’Iran nell’attuare l’accordo sul nucleare, un ulteriore rafforzamento del “rapporto speciale” con Israele e nessun cambiamento di corso riguardo ad Arabia Saudita, Egitto e alle altre autocrazie filo-occidentali della regione. In aggiunta, un possibile reimpiego di forze militari statunitensi in Iraq e speciale un’azione militare robusta contro l’estremismo politico in tutta la regione.
Da Trump ci si può aspettare che indulga nelle sue inclinazioni neo-isolazioniste, probabilmente spostando la politica nella direzione opposta, ritirando forze di combattimento statunitensi e declassando basi militari nella regione, in effetti spostando il fulcro dal Medio Oriente. L’eccezione potrebbe sembrare la sua stravagante promessa di schiacciare l’ISIS, qualsiasi cosa significhi in pratica, specialmente visto che sembra già quasi schiacciato. L’idea correlata di imporre un bando assoluto all’immigrazione mussulmana negli USA, se attuata, probabilmente avrebbe disastrosi effetti di contraccolpo, alimentando le fiamme dello scontento mussulmano incentrato sulle civiltà.
Se votare per un presidente statunitense riguardasse solo il Medio Oriente tirerei a sorte tra i candidati, ma non è così. Quando si prende in considerazione la scena interna statunitense, e anche il resto del mondo, la Clinton ha un margine chiaro a meno che uno non sia così disgustato dalla sua candidatura da scrivere Bernie Sanders sulla scheda o da dare un voto di coscienza a Jill Stein, la candidata del Partito Verde. Resto incerto su quale di queste scelte fare.
I miei amici liberali si arrabbiano quando una simile possibilità è semplicemente accennata. Continuano a incolpare la candidatura di Ralph Nader alle elezioni del 2000 di aver privato Al Gore della vittoria in Florida e dunque di una vittoria nazionale su George W. Bush. Resto disorientato da una simile logica e contrario a essa. Perché consentire a un candidato di un terzo partito di ricercare la carica pubblica se gli esperti considerano irresponsabile, o peggio, votare per lui se è il candidato migliore? O forse va bene votare per lui se il vostro non è uno “stato in bilico”, ma ciò di nuovo significa che è più importante votare per il minore dei mali per evitare il peggiore, piuttosto che votare per il candidato migliore. Io assumo una posizione più sfumata. Dipende da quanto grande è il male maggiore rispetto al male minore, e se questo sembra contare. Attualmente se vivessi in uno stato in bilico voterei per la Clinton, anche se controvoglia (problemi interni e politica delle armi nucleari) ma poiché vivo in California probabilmente voterò per Jill Stein. In qualche modo vorrei che Bernie Sanders avesse combattuto con questo dilemma anziché acriticamente adottare il pensiero liberale prevalente, il che, vista la scivolata a destra della Clinton dopo la convenzione del Partito Democratico, dovrebbe tenerlo sveglio alcune notti.
Da ZNetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo
Originale: Richardfalk.com
Traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2016 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0
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