di Sergio Farris
Nell'assistere alla conferenza dal titolo “Ascesa e declino dell'Europa” tenuta il 21 febbraio a Brescia dal prof. Romano Prodi, invitato per lodevole iniziativa del Comune di Brescia, della Cooperativa Cattolica Democratica, della Fondazione ASM e della Fondazione Calzari Trebeschi, non ho fatto a meno di pensare che, per quanto la diagnosi di una fase storica possa essere oggettiva, l'individuazione delle cause che tale fase storica hanno configurato può dar luogo a letture alquanto divergenti della stessa. Il che non è di poco conto, perchè dall'enucleazione delle cause profonde di un fenomeno, nonchè, come sempre deve avvenire nelle scienze sociali, dalla considerazione dell'assetto di interessi dato, discendono scelte politiche che possono assumere intonazioni diverse.
Ho trovato piuttosto convincente la descrizione epifenomenica dello stato di cose in cui si viene a trovare oggi la “globalizzazione”.
In estrema sintesi, il prof. Prodi dice che il mondo volta le spalle alla democrazia e si rivolge all'autoritarismo, denotando una tendenza alla concentrazione del potere nelle mani di indiscussi “leaders” di partito. Soltanto l'Europa è per ora immune da tale processo, anche se nell'anno in corso vi si terranno importanti elezioni politiche che potrebbero sancire l'avanzamento dei movimenti “populisti”. L'ex Presidente della Commissione Europea opportunamente fa coincidere l'attuale generale ricusazione dei poteri sovranazionali con il declino della cosiddetta “classe media”(tralasciando qui le distinzioni sociali che pure andrebbero fatte all'interno di tale categoria), a sua volta coincidente con l'avvento, verso il 1980, del capitalismo “reaganiano” e “tatcheriano”. In precedenza il motto era stato: più tasse ma più servizi universali. Dal 1980 il paradigma si rovescia, e annunciare l'abbassamento delle tasse diviene un elemento imprescindibile di ogni campagna elettorale. Il risultato del nuovo paradigma è stato però una progressiva concentrazione della ricchezza a favore di una sparuta minoranza sociale. Il capitale si è eradicato dagli stati di appartenenza, mentre il lavoro è tendenzialmente stabile e radicato localmente. Ciò ha condotto al fenomeno della competizione fiscale fra gli stati, il quale ha avuto per conseguenza una costante pressione al ribasso sui salari e sulla condizione di vita della “classe media”.
A questo punto, riconosce Prodi, dovrebbe riemergere l'importanza del potere politico, con la sua capacità di governare lo stato di cose che vede il predominio ormai consolidato del potere economico-finanziario globale.
Tuttavia, a parere di chi scrive, questo passaggio nel pensiero di Romano Prodi è alquanto lacunoso.
Egli, infatti, si limita a patrocinare la causa della rinnovata cooperazione internazionale fra stati, in opposizione agli egoismi nazionali, mentre il proposito andrebbe accompagnato a un radicale rigetto dell'ideologia neoliberale (in evidente crisi ma che ancora può contare sulla resistenza e sull'influenza, anche mediatica, dei poteri economico-finanziari) e la sua più logica sostituzione con un'impostazione ideologica autenticamente socialista-democratica. Emblematico è il caso dell'Unione Europea, dove, secondo Prodi, il potere di rappresentanza sovranazionale incarnato dalla Commissione Europea è stato via via soppiantato dal potere del Consiglio Europeo, luogo ideale per l'emersione degli interessi rappresentati dal paese più forte, la Germania. In realtà, il ruolo della Commissione Europea è sempre stato improntato al rigido controllo dei conti pubblici (così come previsto dal trattato di Maastricht), cioè alla riduzione delle prestazioni di stato sociale con un parallela enfasi sul ruolo delle istituzioni quali garanti attive della libertà di movimento dei capitali e della competitività. In sintesi, la UE è nata ed è stata concepita per l'applicazione e l'estensione dell'ideologia politica neomercantilistica propria del paese più forte, la Germania. Ma questo disegno ha costituito l'incubazione del ritorno agli interessi nazionali una volta manifestatisi gli effetti della crisi debitoria alla quale gli stati periferici sono stati, in ragione del quadro istituzionale di riferimento, ineluttabilmente condotti. E' quindi improprio sostenere che è stata l'ascesa del Consiglio Europeo a provocare il ritorno degli egoismi nazionali, perchè la chiave di lettura del fenomeno va rinvenuta nella fede che, impropriamente, gli stati aderenti alla UE (e all'Euro in particolare) avevano riposto nel “governo delle regole” scolpito nei trattati.
Allo stesso modo se oggi, a livello globale, assistiamo al riemergere di nazionalismo, protezionismo, isolazionismo, nonchè all'avanzata di movimenti “antiestablishment”, è proprio perchè le istituzioni sovranazionali (non solo la UE) si sono rivelate l'humus ideale per la coltivazione degli interessi riconducibili al potere della finanza e dell'industria multinazionale (con l'acclarata conseguenza del ritorno di un insostenibile livello di diseguaglianza). Inoltre, le classi politiche di numerosi paesi si sono rivelate inequivocabilmente (quando non direttamente o personalmente interessate, come nei casi di Monti, Blair, Barroso ed altri, incaricati di consulenze o di ruoli attivi per banche d'affari transnazionali) complici del suddetto potere “esterno”.
Vale a dire: è vero, da una parte, che gli stati nazionali si sono trovati in competizione fiscale fra loro al fine di limitare fughe di capitali, ma, dall'altra, è anche vero che gli stati stessi hanno applicato le politiche che hanno voluto applicare. Il che ha avuto luogo, in particolare, quando si è trattato di procedere ad un drastico ridimensionamento dello “stato sociale” (una commendevole invenzione tutta europea finalizzata all'avvicinamento di condizione delle classi sociali, come lo stesso Prodi ammette).
Al fondo della questione vi è il dominio esercitato negli ultimi decenni dall'idea che l'anomia del mercato condensi le caratteristiche di un ordine “positivistico”, un ordine naturale nel cui ambito operano poteri “trascendentali” le cui scelte sarebbero guidate da una infallibile “mano invisibile”, con effetti che si dispiegherebbero armoniosamente in un tessuto sociale indistinto.
Penso sia superfluo ricordare che giusto alla base di tale credenza sono rintracciabili le cause che hanno condotto alla Grande Recessione del 2008, cui ha fatto seguito l'indecente spettacolo delle classi politiche adoperatesi affannosamente nel salvataggio della finanza privata e nell'imposizione di sacrifici e austerità alla gente comune (soprattutto ai lavoratori).
A mio avviso non è sufficiente, oggi, affermare che basterebbe un superamento delle tendenze all'egoismo nazionale e da ciò, implicitamente, attendersi una rinnovata armonia. E' inevitabile che le troppe vittime della sregolata, poco democratica e guerrafondaia globalizzazione si rivoltino contro l'establishment neoliberale responsabile del deterioramento della loro condizione ed è naturale che si reclami un'attenzione, da parte di nuove classi dirigenti nazionali, verso la cura degli interessi così duramente lesi. Il che significa la necessità di un ritorno alle politiche pubbliche “discrezionali” attuabili dagli stati nazionali. Deve, ovviamente, trattarsi di politiche che vadano ben oltre gli interventi per pervenire a sterili “uguaglianza delle opportunità” o “merito individuale”, creazioni della filosofia neoliberale tramite le quali i singoli vincitori della competizione nel mercato hanno a lungo cercato di giustificare le rispettive posizioni di privilegio.
Prodi giustamente lamenta i crescenti timori, per la sorte della democrazia, determinati dal vento dell'autoritarismo, ma dalla sua posizione, compendiabile nella massima “più Europa e più cooperazione internazionale, non paiono desumibili le più logiche conseguenze politiche per fare fronte all'ardua sfida, ovvero, in primo luogo, la riscrittura delle regole dell'economia, nazionale e globale.
L'egoismo nazionale, nella forma sciovinista e xenofoba che i vari Trump, Orban, Erdogan, ecc., gli fanno assumere, va assolutamente contrastato (vedremo quanto ci metteranno i lavoratori americani che hanno votato per Trump a restare delusi). Ma non è parimenti concepibile che la soluzione ai problemi epocali provocati dalla globalizzazione liberista vada ricercata in costanza dell'assetto di poteri e di interessi così come esso è oggi costituito. Altrimenti si rischia di essere confusi e assimilati all'“establishment”.
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