di I Diavoli
Benoît Hamon, il candidato del Partito socialista all’Eliseo, esce di scena dalle presidenziali francesi (e forse dalla vita politica) con un disastroso 6,3%, stritolato tra La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon e En Marche! di Emmanuelle Macron. Era l’ultima chiamata per Parigi. Il nome di Hamon allunga la lista dei leader socialisti “bruciati” dalla difficoltà di definire una proposta alternativa da un lato all’emersione delle forze afferenti alla molteplice galassia del cosiddetto “populismo” e, dall’altro, ai difensori dello status quo che assumono forme sempre più disparate: l’ultima è quella “post-sistema” – del “né di destra né di sinistra” – incarnata dal leader di En Marche!
I precedenti: Spagna, Olanda, Grecia
Prima di Hamon, il segretario del PSOE, Pedro Sanchez, era rimasto vittima dello stallo politico spagnolo, inchiodato nel guado, incapace di scegliere tra una grande coalizione con i popolari di Mariano Rajoy e un governo di svolta con Podemos. Non va meglio in Olanda, dove la presunta tenuta delle forze europeiste coincide con la catastrofe socialista. Per non parlare della Grecia, il Paese dove è stato coniato il neologismo che definisce il processo di cancellazione delle forze socialdemocratiche: ovvero, la “pasokizzazione”. Ci sono ormai elementi a sufficienza per considerare il campo socialista in crisi irreversibile.
Forse, il 2017 sarà l’ultimo anno di questo penoso accanimento terapeutico che dura da almeno un decennio: dalla fine del secondo mandato di Tony Blair e il triste y solitario final del governo Zapatero che tante speranze aveva creato e altrettante deluso.
La vera sconfitta della socialdemocrazia: tra politica ed egemonia
Le recenti sconfitte elettorali del socialismo europeo, (che – stando a quanto possiamo riportare dai corridoi di Bruxelles – non ha la minima idea di come costruire un’azione politica coordinata e lungimirante per superare lo “stato di minorità”) rappresentano la punta dell’iceberg di una situazione ben più drammatica. La sconfitta vera, infatti, si consuma sul doppio terreno della politica e dell’egemonia, al termine di un lungo percorso che – a partire dagli anni Novanta – sancisce lo scivolamento delle socialdemocrazie sul terreno della deregulation, dello smantellamento del welfare, dell’ineluttabilità del mercato e dell’accumulazione finanziaria. Un processo favorito e ispirato dal clintonismo in America, e apertamente teorizzato da Anthony Giddens, il teorico della Terza Via.
Lo sfaldamento socialista ai tempi dell’austerity
Il capolinea di una simile evoluzione è il definitivo sfarinarsi della proposta socialista nel periodo post-Crisi, al tempo dell’austerity, in cui l’idea di una gestione “temperata” delle politiche liberiste si schianta davanti al loro intensificarsi, da un lato, e – dall’altro – innanzi all’emersione dei movimenti del “popolo” e della “gente”.
Anche ammettendo che la dialettica tra “globalisti” e “sovranisti”, tra sostenitori degli attuali assetti europei e teorici del ritorno alla Nazione, rifletta due modelli di governance riferibili ad altrettante fazioni del capitale, non si vede quale spazio possa avere il fronte socialista in un simile confronto.
Emerge il sospetto che la scolta blairiana potesse funzionare in un quadro espansivo, ma che non abbia nulla da dire in un contesto dominato dalla recessione o da una debole ripresa. La sinistra di governo, quella “responsabile”, quella che governa la complessità (per esserne infine governata), ha rinunciato man mano alla politics per concentrarsi sulla policies. Come se il suo ruolo nello scacchiere politico fosse quello dei curatori fallimentari. E così ha perso consensi, identità e prospettiva.
Il disastro già prima di Hamon
Benoît Hamon si è assunto le responsabilità di un disastro totale di cui non è responsabile. Ma con lui, spariscono anche alcune delle più interessanti e innovative proposte che la socialdemocrazia abbia registrato da anni a questa parte; da quando si è stabilizzato il modello della Terza Via come unico possibile per la sinistra di governo.
I giornali francesi, non a caso, parlavano di Hamon come del “Bernie Sanders” transalpino (qui il ritratto, ndr). In molti lo hanno preso in giro per la sua proposta di “tassa sui robot” o per la parola d’ordine del reddito di cittadinanza, una vera e propria cesura rispetto alla centralità del lavoro professata storicamente dalla socialdemocrazia. Così come Bernie Sanders si era proposto in qualità di estensore di un nuovo patto “sociale” con le giovani generazioni che non hanno mai sentito parlare di “critica radicale” e “conflitto”, Hamon si proponeva di rappresentare una possibile “rinascita” del PS.
Proprio di quel Partito socialista azzoppato da una leadership, quella dell’hydra Hollande-Valls, che ha abbracciato la retorica securitaria e liberticidia dei populismi di destra su alcune questioni centrali come quella dei migranti, della sicurezza e della lotta al terrorismo. Se la Terza Via iniettava il virus dei mercati nelle idee di sinistra, Hollande e Valls hanno portato a sinistra i temi di destra più pericolosi: quelli del conflitto sociale visto con gli occhi di chi vorrebbe ergere muri, confini e protezioni verso lo straniero.
Un’occasione mancata
Benoit Hamon ha sollevato questioni importanti legate a un rapporto non rabbioso nei confronti della tecnologia e alla progressiva riduzione della prestazione d’opera, provando a elaborare un programma che raccogliesse la sfida del capitalismo finanziario e cognitivo, e che acquisisse il superamento dell’orizzonte di piena occupazione. Il tentativo di portare il PS francese su un terreno sconosciuto alla socialdemocrazia è stato salutato con entusiasmo da quanti applicano il «metodo della tendenza», concentrando l’attenzione sul punto più avanzato dello sviluppo del capitale, laddove dovrebbe esprimersi la centralità di una composizione tecnica di classe cognitiva e cooperante.
Non è andata così. Il coraggio di Hamon ha convinto solo il 6,3% dell’elettorato e l’importanza della discontinuità non è stata riconosciuta. Oggi, la gauche è quella di Mélenchon, e si raccoglie intorno a uno zoccolo duro di lavoro operaio, e dipendente, che esprime domande di tipo tradizionale. Con questo dato occorre fare i conti senza esitazioni: al momento, in Europa, un processo di ricomposizione intorno al lavoro cognitivo, al precariato intellettuale massificato, alla potenza della cooperazione sociale sembra impraticabile.
Tornano, così, di stringente attualità le parole dell’economista e filosofo Fréderic Lordon che, ai tempi del movimento Nuit Debout, indicava l’importanza di un processo ricompositivo tra frazioni «quotidianamente separate e [che] si guardano con sospetto»:
«Da una parte i militanti delle città, giovani di un livello culturale e scolastico relativamente elevato, spesso intellettuali precari, e dall’altra parte, le classi lavoratrici sindacalizzate le cui tradizioni di lotte sono estremamente differenti. Ora, questa convergenza è decisiva per la potenza di un movimento sociale. E più decisiva ancora è la convergenza con la gioventù segregata delle periferie, caratterizzata da collera e lotte proprie, ma che gli altri due blocchi ignorano completamente».
È questo processo a non essersi dato in Francia, comunicando l’impressione che il ciclo di lotte legato a Nuit Debout e al movimento contro la Loi Travail sia stato un’occasione mancata.
Socialdemocrazia: le ragioni di un tramonto inesorabile
Nel frattempo, è stata bruciata anche la possibilità di rendere credibile uno scarto epocale per i socialisti. Persa la Spagna, l’Olanda e la Francia, la socialdemocrazia consuma il suo tramonto inesorabile che nessuno, attualmente, sembra in grado di invertire. Per ignoranza, forse. Per mancanza di coraggio, probabilmente. Per miopia analitica, anche. Eppure, la necessità di una svolta è ineludibile. Come ineludibile appare il rilancio per affrontare il mondo a venire dell’automazione, dei robot e degli algoritmi, dell’accelerazione della finanza e della riforma radicale degli assetti politici europei.
Fonte: I Diavoli
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