di Alessandro Visalli
Il libro di Carlo Formenti del 2016 conclude per ora un ciclo breve sul populismo durante il quale sono stati letti: l’intervento di Nadia Urbinati, che tende a vedere il lato illiberale nel richiamo al “popolo” (termine che in senso proprio è invece sempre plurale), quello di Jurgen Habermas, e di Jan-Werner Muller, sulla stessa linea della Urbinati, il testo del 2009 di Ernesto Laclau “La ragione populista”, che è il più strutturato riferimento teorico della corrente in oggetto, e poi Nancy Fraser, Nicolao Merker, che inquadra il populismo di destra in chiave filosofica, infine la ricostruzione di Marco Revelli. Sarà necessario tornarvi, anche in funzione dei molti eventi che si susseguono in questo tempo accelerato della crisi terminale dell’assetto tardo novecentesco.
Come spesso è capitato, infatti, un secolo si è davvero chiuso solo dentro una fase di accelerata transizione che guarda ad entrambi i versanti: il settecento, età del primo scientismo e della dissoluzione sotto la sua spinta di blocchi egemonici secolari, transita nell’ottocento, età del positivismo, del macchinismo e della riorganizzazione secolare del mondo, attraverso il ventennio napoleonico che si conclude di fatto a Lipsia nel 1813; il novecento, età della società di massa, entra in scena davvero dopo la conclusione della fase di transizione aperta con la guerra franco-prussiana e conclusa con la sconfitta del reich tedesco e dei suoi alleati nel 1918. Il secolo breve ha iniziato a finire con la crisi degli anni settanta (avviata nel 1971, ma incubata nei sessanta) e, accelerando nel ’89, sta davvero terminando in questi anni.
Non possiamo sapere cosa sarà il nuovo secolo, quando la polvere si sarà posata, ma il laboratorio politico plurale (e contraddittorio) che etichettiamo come “Populismo” ne farà parte almeno per qualche tempo. La speranza è che ne faccia parte una forma politica democratica, rivolta al rispetto dei popoli e della loro capacità di definirsi e determinarsi, e quindi alla rimessa in questione della sovranità multilivello schermata del novecento (intrinsecamente dirigista e trasformazione ultima degli assetti di lungo periodo ereditati dai cicli di lotta infra-elitari del sette-ottocento), senza ricadere in chiusure nazionaliste primo ottocentesche. I laboratori “populisti”, in definitiva, sono parte sia della speranza sia del rischio. Tutto dipende da come saranno articolati.
Il contributo a questo lavoro di chiarificazione che fornisce Carlo Formenti è molto interno alla cultura della sinistra radicale italiana del novecento e si articola, direi, in tre “racconti” e tre “snodi interpretativi”.
La proposta di prendere in considerazione la “variante populista” (nel processo di ricomposizione delle sparse tessere del vecchio mosaico della lotta di classe), parte con un primo racconto (da pag. 13 a 73, “I denti del capitale”) della situazione sul terreno, imperniata sulla globalizzazione, l’economia del debito, l’uomo nuovo dell’ordoliberismo, la forma politica della post-democrazia e il digitale; quindi prosegue con un secondo racconto (da pag 75 a 119, “L’eutanasia della sinistra”) che inquadra la morte della socialdemocrazia intorno all’89, il suicidio del sindacato, le retoriche flessibili dei diritti e dei desideri; infine il terzo racconto (da pag. 212 a 254) sui “populismi” odierni nei diversi casi in cui si sono presentati.
Gli snodi principali nei quali l’interpretazione di questi racconti conduce all’esito mi sembrano tre: la necessità di archiviare l’operaismo (p.125), quindi di ripartire dalle ‘tessere’ per ‘rifare il mosaico’ (p.152) e di comprendere lo scontro egemonico in corso come fuoriuscita dalla fase “imperiale”, troppo frettolosamente considerata esito della Storia, verso nuovi equilibri al momento non prevedibili su cui sono molteplici le ipotesi (da pag. 177, “guerre e confini”).
Si tratta di un piano di lavoro vasto.
Rileggerlo comporta quindi delle scelte che in parte derivano dagli interessi del lettore e dalla dinamica del discorso tenuto; dunque come sempre, nella lettura saranno aggiunti dei fili, si spera che la cucitura tenga. Il compito di “riconquistare la sovranità popolare” passa, per Formenti, anche per il tentativo di articolare “un’idea postnazionalistica di nazione”, in cui non è l’ethnos presunto dato (su cui rinvio alla istruttiva lettura di Merker) ma la “comunità di tutti quelli che lavorano e lottano in un dato territorio” (p.9) a indirizzare una tensione aperta ed inclusiva a fare “Nazione”, nel rispetto della vocazione e del diritto eguale degli altri. Ciò nella mia valutazione significa anche coltivare e dare piena legittimità ad una forma di “patriottismo”, cioè di amore e rispetto, verso tutti coloro che si orientano allo “spirito oggettivo” delle migliori istituzioni e della forma di vita che ci crea come individualità collettiva. Un patriottismo che può essere aperto e universalista, senza sconnettersi, anzi proprio collegandosi, con le tradizioni costituzionali e la storia di libertà e determinazione ad essere esempio nei momenti più alti in cui ci siamo costituiti. Alcuni chiamano questa forma “universalismo esemplare”. Come avevamo scritto al termine del post sul “populismo di sinistra” in Mélenchon, ciò non è affatto incompatibile con gli obblighi che intendiamo auto assumerci nei confronti dell’umanità in generale, ma li sostanzia. La causa dell’umanità si sostiene, infatti, difendendola entro di noi e nelle istituzioni con le quali abbiamo a che fare; compiendo la “buona gara” di renderle ognuna esempio per l’altra. Certo bisogna liberarsi in modo radicale dell’esatto opposto del “patriottismo” che è l’auto-disprezzo (forma di governo inibente largamente praticato in Italia, e non da oggi).
Bisogna sottolineare che la “sovranità popolare”, formula richiamata da Formenti, e come ricorda il costituente Lelio Basso nel 1973 a pochi anni dalla morte, non è né la “sovranità statale” né la “sovranità nazionale” (rispettivamente scritte nelle costituzioni tedesche e francesi), ma quella forma che “appartiene al popolo” (non vi “emana” o “risiede”). Occorre, quindi, capire come questo intrinseco plurale si costituisce democraticamente, senza preesistere al processo politico. Occorre una democratizzazione intransigente.
Ma certo occorre anche, appunto, ricomporre ‘le tessere’.
Dunque vediamo cosa le ha disgregate, i primi due racconti di Formenti ne danno conto: quella che si è affermata, a partire dagli anni ottanta del secolo scorso, è la prevalenza di una lotta di classe dall’alto verso il basso (come appunto ricorda Gallino) rivolta a contenere i salari reali (l’ultimo Outlook del FMI quantifica in quattordici punti), inasprire tempi e ritmi di lavoro, garantire e rafforzare la disciplina e la gerarchia sociale, demolire il welfare. Sono obiettivi che si tengono in un progetto (ovvero in una direzione funzionale) orientato di aumentare la quota profitti (appunto, del 14%). Tale orientamento si è nutrito di quattro direzioni strategiche: la finanziarizzazione dell’economia, un riorientamento culturale complessivo, la neutralizzazione della democrazia rappresentativa, la ristrutturazione tecnologica.
Formenti aderisce alla visione ciclica del primo fenomeno difesa da Arrighi (“Il lungo XX secolo”), e quindi lo vede come effetto dell’esaurimento di una spinta propulsiva del modello di accumulazione (un set di tecnologie, rapporti egemonici, incastri geostrategici) che induce a fuggire dall’investimento nella produzione, ovvero nel modello, rifugiandosi nel modo di valorizzazione D-D. L’esaurimento del modello è descritto sinteticamente da Formenti come crisi del modello di produzione fordista, causato dalle pressioni convergenti del lungo ciclo di lotte operaie, dalla crisi delle materie prime (causata in via complessa dall’esito dei processi di decolonizzazione e dalle reazioni statunitensi alla competizione europea e giapponese) e dalla “crisi fiscale dello stato” (viene citato il classico libro di James O’Connor). La produzione quindi, sotto la pressione competitiva interna ed esterna, vede fuggire il capitale che si rivolge alla rendita come fonte di auto valorizzazione. Certo, qui si aprono tante questioni teoriche che il libro non intende affrontare, né sarebbe il suo scopo, la vasta trasformazione del capitalismo andata in essere a partire dagli anni settanta imporrebbe spazio incompatibile con il ritmo del libro. Formenti sottolinea comunque come alla volatilità del capitale fa riscontro per ragioni sistematiche quella che chiama l’evanescenza del lavoro. E chiaramente tutto ciò poggia su una “piattaforma tecnologica” nuova e potente (alla quale il FMI, per fare un esempio, attribuisce due terzi dell’effetto complessivo sui salari).
Ma la tecnologia è sempre orientata nel suo sviluppo dall’ambiente normativo e sociale nel quale è prodotta, dunque l’azione politica rivolta alla deregolazione è causa (contemporaneamente essendo resa possibile dalla sconfitta e dalla “cattura” di cui parla nel secondo racconto) a definire la “cornice istituzionale e legislativa”. La liberazione della finanza ha scatenato forze irresistibili (di autentico ricatto) che hanno poi imposto costanti riadattamenti del quadro legislativo e istituzionale in direzione della flessibilizzazione e quindi ovviamente contrazione dei diritti sociali conquistati. In parte qui si è dato uno spostamento tematico, e uno scambio, tra questo genere di diritti e i preesistenti e classici diritti liberali, compatibili con retoriche flessibili. Resta internamente connesso a tale insieme di politiche, azioni e forze animali, l’arma di distruzione di massa della globalizzazione, e l’economia del debito che porta con sé.
Formenti non accetta l’idea che la prima sia effetto “naturale” (termine chiave, sin dal settecento, dell’ideologia liberale) di una dinamica non soggetta a scelta umana, ovvero della dinamica economica (letta come struttura del reale). Propone di considerarla, invece, “lucido disegno politico” (p.20) per ottenere l’essenziale risultato di distruggere il potere dei lavoratori consentendo che il capitale in fuga si impieghi dove le condizioni di forza consentono maggiore estrazione di profitto, ovvero nei paesi in via di sviluppo. In altre parole globalizzazione dei capitali e delle merci sono intrinsecamente connessi e funzionali ad una equalizzazione del saggio di sfruttamento che vede questo riportarsi complessivamente su livelli non visti più dall’ottocento. Un progetto ben strutturato, ma impersonalmente e quindi irresistibilmente incorporato nella logica stessa del codice “capitale” che guida anche lo sviluppo di quella prosecuzione dell’umano che è la tecnologia.
Qui bisogna dare conto della principale obiezione che gli organismi (in primis l’Ocse) e in generale “i progressisti” avanzano a questo modo di vedere la cosa: la globalizzazione può pure aver comportato una stagnazione dei salari e della quota lavoro in occidente (ormai non lo nega più nessuno, mentre fino a qualche anno fa veniva occultato), ma complessivamente questa è aumentata perché milioni di persone sono emerse nei paesi in sviluppo (India, Cina, Brasile). La risposta di Formenti, sulla quale si dilunga nel testo con particolare riferimento alla Cina, è che a fronte di una piccola classe media cresciuta in questi paesi (che l’attuale “piattaforma” in via di creazione tende a mettere in competizione con la classe media occidentale, provocandone il degrado), centinaia di milioni di persone hanno avuto accesso, entrando nel mondo della produzione commerciale e venendo sradicati dalle forme di vita tradizionali, solo a condizioni di semi-schiavitù che ricordano da vicino le condizioni di accumulazione primitiva del capitalismo inglese del settecento. La ragione è semplice: è il capitale a guidare il processo. Ovvero la sua impersonale logica di massima valorizzazione fine a se stessa, il cui “spirito” è stato liberato (cfr, ad esempio qui) dalle decisioni tecniche e politiche del decennio. Si tratta della “walmart economy” all’opera.
L’economia del debito è un circuito complementare e in qualche modo un adattamento (cfr. la classica analisi di Streeck) causato dalla necessità di mantenere la promessa edonica, su cui il capitalismo ha costruito il suo successo sin dal settecento, mentre la quota di reddito prodotto con il lavoro cala. I capitali “liberati” vengono riciclati in parte in strumenti di credito e nel complesso circuito crollato nel 2008 (si veda il libro di Raghuram Rajan “Terremoti finanziari”) creando una spirale autoalimentante irresistibile. Questo stesso meccanismo sta in questo momento, secondo Formenti che cita Mylène Gaulard (“Karl Marx a Pékin”), travolgendo anche la Cina, la cui finanziarizzazione e inclusione nel circuito del debito è crescente e sta arrivando al momento critico.
Il primo racconto continua con la descrizione dell’ordoliberismo (p.30), rivolto a creare letteralmente un “uomo nuovo”, sulla base dell’analisi di Dardot e Laval (“La nuova ragione del mondo”), che enfatizzano il carattere “costruttivo” del mercato e quindi il carattere utopico dell’operazione. Il cui circolo va dalla trasformazione dell’individuo come ottimizzatore di un ‘proprio’ capitale a fini di soddisfazione compulsiva di desideri e bisogni illimitati (perché prontamente sostituiti in un circuito necessariamente infinito di feticci, la cui reale funzione è di prendere l’individuo in una macchina competitiva, di fondare il bisogno di individualizzazione e distinzione su questi), alla mercatizzazione di tutto che ciò porta con sé (ed alla reificazione che comporta), nell’apparenza di autonomia del soggetto, ma in realtà nella sua cattura come dispositivo esso stesso del controllo dello “spirito del capitalismo” sull’intera società.
Parte di questo circolo è il depotenziamento del politico e quindi della democrazia. Il protagonista non può più essere un cittadino, produttore e decisore, ma una sorta di grumo desiderante che si manifesta attraverso i suoi consumi, che sono l’unica espressione di sovranità residuale (si vedano, ad esempio, le chiare parole di Guido Carli qui).
Questi effetti combinati portano, in un set compatto, all’esito post-democratico intenzionalmente progettato dalle élite. La post-democrazia dal basso, di soggetti che non riescono più a sentirsi cittadini (ovvero politicamente attivi), ma che orientano l’intera attenzione ai fenomeni del consumo, alla difesa dei loro spazi ed all’orientamento alla sorveglianza, è riletto attraverso il classico lavoro di Rosanvallon (per il quale rinvio a questo post riassuntivo), che non caso è orientato al funzionalismo sistemico capace di rileggere il sistema di direzione politica come una rete multilivello a geometria intrinsecamente variabile. La post-democrazia, fatta di sospetto e sorveglianza, alimenta, per una sorta di contrappasso ironico, la tecnocrazia. Un esempio paradigmatico è ovviamente l’Unione Europea, una costruzione espressamente multilivello, il cui scopo essenziale (cfr il giudizio convergente di Peter Mair) è di creare un vuoto politico tra i cittadini residuali e i luoghi della decisione. L’Unione Europea, in altre parole, non è affatto un “progetto incompleto”; si tratta esattamente di ciò che sin dall’inizio si intendeva produrre, un dispositivo multilivello di controllo e disciplinamento, orientato in senso ordoliberale, che non punta in realtà ad un “superstato”, ma alla completa liberazione dello “spirito del capitalismo”. Questo progetto (non perfettamente coerente, in quanto elementi di potere statuale sarebbero desiderati, ma per farne un centro imperiale) è stato portato avanti in una serie di passi che Formenti ricostruisce per salti: Andreatta e Ciampi nel 1981, la scala mobile, le riforme del lavoro, le privatizzazioni.
Ultimo elemento del primo racconto è la rivoluzione digitale per descrivere la quale Formenti richiama il dibattito sull’automazione, l’interconnessione ed i suoi effetti sul lavoro. Si tratta di un vasto dibattito su cui ci siamo a lungo esercitati (posso richiamare sinteticamente il post sull’”Industria 4.0” già ricordato, e quello sulla proposta di André Gorz), ma è chiaro che tutto ciò, in questo contesto, punta su un ulteriore incremento dello sfruttamento e dell’espulsione degli inadatti. Fa parte di questo processo anche l’uberizzazione, nonché i nuovi dispostivi di controllo diffusi (Iot e Smart cities).
Il secondo racconto ripercorre l’eutanasia delle sinistre, che si sono piegate a questo quadro, in alcuni casi contribuendo alla sua costruzione. Sotto accusa è certamente la “terza via” (titolo di un fortunato libro di Giddens ed etichetta comune ad un insieme di linee politiche che negli anni novanta si sono imposte da entrambi i lati dell’oceano Atlantico), ma anche il suicidio del sindacato (in Italia a partire dalla svolta dell’Eur del 1977), e l’insorgere di movimenti di self-help e di rivendicazione di diritti individuali (femministi, gay) intrinsecamente imperniati sulla liberazione dei desideri individuali e sulla retorica dei relativi diritti (p.87). Questi movimenti, come vede anche Crouch nel suo classico libro, sono disponibili ad essere reinterpretati nel quadro di una liberazione dell’uomo consumante, e sono del tutto compatibili con l’uso capitalistico. Sono sincroni con lo “spirito del capitalismo”: dunque sono “retoriche flessibili”.
Sono anche intrinsecamente orientati all’unica forma di cittadinanza (apolitica) disponibile, quella cosmopolita. Ovvero alla cittadinanza delle trainanti superclassi di cui parlava l’ultimo Dahrendorf.
Fanno parte di questo set di nuovi movimenti, per Formenti, anche il pallido verde dei movimenti ambientalisti (p.113), ma anche i neocomunitari o territorialisti, insorti negli anni novanta (Magnaghi e Bonomi).
Dunque come se ne esce?
Bisogna compiere tre mosse:
- Archiviare l’operaismo (p.125),
- Rifare un mosaico che costituisca un popolo politico (p.152),
- Orientarsi oltre l’”impero” e rimettere in moto la storia (p.177).
La prima mossa, implica liberarsi della mitologia delle forze produttive e della “tecno scienza” come sostituto della religione. Si tratta del portato lungo delle svolte con le quali abbiamo aperto il post, ovvero del lungo e contraddittorio processo di secolarizzazione, multivalente come ogni processo storico, che muove dal settecento (in realtà da un paio di secoli prima) e trova nell’entusiasmo tecno industriale del paradigma positivista ottocentesco un punto alto di sistemazione. La versione post-moderna di questa lunga ombra è intrecciata di molteplici e sempre reiterate “descrizioni mitiche”: la rivoluzione digitale, internet come liberazione anarco-californiana (ma anticipata da Teilhard de Cardin), il transumanesimo, in generale il ruolo sempre ‘progressivo’ della tecnica.
È chiaro che le tesi chiave di questa lettura del reale sono molto problematiche, in particolare per l’autore lo sono la tesi che il capitalismo contenga un principio immanente che lo guida inesorabilmente verso il proprio superamento (tesi attribuibile ad una semplificazione strumentale del marxismo, presente in qualche modo dall’avvio). Viene in proposito citato un libro di André Gorz, ma varrebbe anche il più recente testo di Paul Mason (per certi versi interessante) per notare la tendenza a questo scivolamento. Ma anche la tesi, connessa, che in fondo le forze produttive sono neutre, non hanno un proprio “codice”, e sono quindi riusabili in un contesto non capitalista se solo si cambia di segno al fatto giuridico della proprietà. In questa direzione sono criticate le tesi di Matteo Pasquinelli e del “Manifesto accelerazionista” e Antonio Negri. Sulla base di questa lettura (che può poggiarsi su una selettiva esegesi di testi marxiani), sarebbe “questione di forza” e i “codici” sono impiegabili in sé anche in altre direzioni, a servizio di diverse antropologie. La terza tesi che l’autore (e lo scrivente) non condivide è che le nuove forme di lavoro immateriali siano in sé un progresso, perché liberano le potenzialità creative e consentono all’individuo di esprimersi.
Insomma, il capitalismo cognitivo (che comunque è connesso intrinsecamente con forme ben materiali dello stesso nelle fabbriche-lager di mezzo mondo), non genera da sé le condizioni del suo superamento, generando ricchezza sociale (di cui si tratterebbe solo di appropriarsi) spontaneamente da uno spazio sociale innervato da tecnologie digitali ubique, lasciando nelle sue maglie che l’autorganizzazione cooperativa direttamente delle intelligenze (sollevate dai corpi, in qualche modo) possa produrre i suoi spazi di libertà. La cooperazione è essa stessa una funzione del capitale, include nel suo farsi e diventare pensabile e quindi possibile, codici e condizioni materiali di comando, controllo ed organizzazione che sono un modo di esistenza del capitale. Ovvero di sua insorgenza. Formenti cita in supporto Marx, ma ricorda anche il legame dello “spinozismo” di Negri con forme di critica premarxista (ad esempio Proudhon); dunque “il prelievo capitalistico non è [un momento] successivo [alla produzione di valore], perché la produzione in quanto tale è già presieduta dalla ricerca del profitto” (obiezione di Marx a Proudhon). La produzione è già dentro il codice, e questo è capitalistico.
Ma la critica al set teorico dell’operaismo risale anche alla tesi della “composizione di classe” ed al Tronti di “Operai e capitale”, le cui tesi subiscono una torsione essenziale nel moderno post-operaismo nella sua trasformazione in una “Italian Theory” tanto di moda quanto vuota. Il racconto prosegue citando il lavoro di Roggero per “restaurare” il paradigma, depurandolo delle torsioni intervenute. Infine viene criticato l’impianto di Manuel Castels o di Richard Florida che misinterpretano i cosiddetti “lavoratori della conoscenza” come nuova “avanguardia di classe” capace di invertire il rapporto tra lavoro vivo e capitale e di autonomizzare le reti di lavoratori spontanee (p.146 e seg.).
Ma liberarsi da narrazioni troppo ideologiche su mitici “nuovi soggetti” evidentemente non basta per riavviare una prassi trasformativa del complesso intreccio di fenomeni, dinamiche e problemi illustrato nel primo racconto. Bisogna anche capire come “rimettere assieme i frammenti di un proletariato globale che, dopo decenni di guerra di classe dall’alto, sono sparsi come le tessere di un mosaico fatto a pezzi”. Certo oggi le condizioni non esistono, ma molte leggende sulla scomparsa del ‘produttore’, in favore del lavoratore cognitivo, dei servizi e dei ‘simboli’, sono da riposizionare. Ricerche più approfondite (Clash City Workers) mostrano che è stata più una disseminazione e riclassificazione a fini statistici. Molti lavoratori “dei servizi” sono in realtà impegnati in attività che una volta erano semplicemente incorporate nei sistemi produttivi verticali. Il lavoro materiale è ancora, insomma, quantitativamente prevalente. I teorici del “cognitariato” obiettano che comunque il valore aggiunto è prevalente nei segmenti dell’innovazione e immateriali. Formenti risponde che attribuire valore a segmenti di una catena è operazione arbitraria, è la cooperazione che crea nel suo insieme la valorizzazione complessiva. Dal punto di vista della critica dell’economia politica, il fatto che alcuni segmenti siano sottoposti e separati (anche geograficamente) non rileva al fine del giudizio sulla catena integrata del valore.
Ma questo macrofenomeno del ricollocamento del primo segmento della produzione (la classica “fabbrica”, anche verticale) nelle aree deboli semiperiferiche, facendo leva sulla mobilità dei capitali e i servizi alle imprese (secondo una gerarchia che parte dalle “città globali” di cui parlava Saskia Sassen alcuni anni fa) e convertendo la produzione in assemblaggio di semilavorati e componenti prodotti in dette aree, concentrando il valore aggiunto negli snodi più convenienti in termini di controllo e direzione, ha avuto vaste conseguenze nelle condizioni di vita e di lavoro. Essenzialmente ha comportato: una crescita esponenziale del lavoro precario, l’attacco ai “privilegi” conquistati dai lavoratori nella fase fordista, la tendenza a uniformare le condizioni del lavoro pubblico e privato verso il modello più conveniente per il capitale, la subordinazione del lavoro autonomo (formula che è sempre più svuotata, in particolare ma non solo nei servizi professionali che vengono riorientati dalla funzione sociale di servizio a quella di anello del meccanismo di valorizzazione mercatista), la riduzione di autonomia delle piccole imprese.
Il lavoratore tipo è flessibile, specializzato, privo di consapevolezza del processo complessivo in cui viene coinvolto (data l’estrema parcellizzazione orizzontale dei processi), privo di garanzie sia sindacali sia sindacali e previdenziali, ibridato tra lavoro manuale ed intellettuale, anche a causa subordinazione crescente a routine predefinite dalle tecnologie informatiche e da queste controllate.
Secondo la ricerca citata, in sintesi: “gli operai esistono ancora, anche se ‘travestiti’ – almeno in occidente – da ‘operatori del terziario’, e il loro potenziale antagonistico si concentra nei settori del cosiddetto ‘terziario arretrato’, piuttosto che in quelli tecnologicamente avanzati” (p.157).
Ma i processi di ricomposizione possono essere anche innescati dalle città come vere e proprie “macchine produttive”. È proprio il processo di urbanizzazione ad essere diventato in qualche modo “fonte diretta di plusvalore”, come sostiene David Harvey, il processo di urbanizzazione crescentemente assorbe le eccedenze finanziarie prodotte dal processo di valorizzazione del capitale (una funzione essenziale, per conservare l’indispensabile liquidità al sistema), dunque la cartolarizzazione dei prodotti immobiliari, ed i grandi progetti urbani che spesso ne sono occasione, non è un fenomeno secondario (ne abbiamo parlato, ad esempio, in “Londra si autodistrugge”), la polarizzazione della città in zone impermeabili (come diceva anche l’ultimo Bernardo Secchi), e lo sviluppo di lotte contro la privatizzazione dei beni comuni.
A questo punto, dopo un utile approfondimento sulla situazione della Cina, con la fine della “società armoniosa” e della solidarietà interna, sotto pressione dello spirito del capitale, anche se in altra forma politica, e del Sudamerica, oltre che della Russia (p.166), Formenti arriva al terzo snodo.
Fino ad ora ha sostanzialmente descritto una situazione nella quale il crollo del sistema socialista, unito al balzo tecnologico visibile nella rivoluzione digitale ed i suoi impatti pervasivi nella vita quotidiana di ciascuno (io, personalmente, sono nato in un mondo analogico ed ho visto negli anni settanta tutti i passaggi e l’entusiasmo che hanno portato con sé, anche ben prima dell’insorgenza di internet) ha fornito una narrazione in due versioni: la fine della storia (Fukuyama) e l’impero (Negri), sostanzialmente sincrone. I tratti comuni di entrambe le visioni sono la fede nel ruolo progressista della tecnologia, superando il sospetto che il trauma del novecento e l’ascesa del punto di vista ambientalista portavano con sé, la retorica dell’immateriale, l’insuperabilità della fase finanziaria dello sviluppo vista come stadio finale di un apprendimento evolutivo che deve solo eliminare progressivamente le scorie e resistenze per dispiegare l’esito desiderato (che è, rispettivamente il pieno successo dell’utopia del mercato, come luogo liscio e privo di attriti, o la transizione al comunismo per “linee interne”). L’idea è catturata nella versione negriana dallo slogan “dentro contro”. Nulla più esiste, né può, fuori del modo di produzione capitalistico, e dell’impero che ne è la rappresentazione istituzionale, in particolare gli Stati sovrani sono solo dei residui “barbarici” da superare.
Tutto questo, dal 2000, anno in cui viene formulato, è stato drasticamente contraddetto. Anche guardando i cicli di guerra si vede come il primo, che succede al consolidarsi del paradigma bifronte contestato da Formenti, da quello dei balcani al secondo conflitto iracheno (passando per l’Afganistan) sono lette ancora secondo l’idea che la politica sia terminata e restino solo operazioni di polizia, o umanitarie. Invece i conflitti di questo decennio sono guerre di confine (Ucraina, Siria e Libia) tra aspiranti egemoni, almeno regionali. Dunque per Formenti, allargando la visuale, “l’immediato futuro del pianeta è segnato dallo scontro fra gli Stati Uniti e la Cina per l’egemonia mondiale”. Insomma, non c’è più un solo “impero”. Al riguardo la previsione è sinistra: “ove si consideri che nessun grande ciclo egemonico si è esaurito senza che la potenza egemone abbia scatenato una o più guerre per ritardare la propria caduta, lo scenario di una intensificazione della competizione con la Cina appare più che probabile” (p.184).
La situazione europea è parte di questo scenario di confronto, e lo è la cosiddetta invasione dei migranti. Il conflitto diventa a pelle di leopardo, tra “spazio dei flussi e spazio dei luoghi”, tra “le metropoli del mondo e le immense periferie degli esclusi che le assediano”. Una versione particolarmente aggressiva è l’Isis che non solo coalizza gli sconfitti sunniti delle guerre irachene, connettendoli con il grande gioco ipercomplesso delle diverse potenze globali e regionali (in cui spesso ognuna gioca più parti in commedia), ma anche le periferie “interne” delle nostre metropoli.
Allora da dove si comincia a ricostruire? L’ipotesi è “dal basso”, non dalle élite del lavoro, come vorrebbero sia in marxisti ortodossi (il giudizio di Marx sul sottoproletariato sta a mostrarlo) sia i postoperaisti; ma dagli strati più deboli ed emarginati che oggi si orientano verso le proposte delle destre difensive. I migranti, i working poor, i lavoratori del terziario arretrato, i precari, i cognitivi declassati, ma anche quelli che stanno “fuori” (i contadini, il sottoproletariato metropolitano, il lavoro servile, anche le comunità indigene). Il punto è superare il pregiudizio progressista/modernista, e saper guardare anche la lotta contro l’addomesticamento e per l’autonomia, dove e nella forma in cui essa è, anche se sembra “arretrata”. Non si tratta sempre di “residui” feudali, fatalmente destinati a lasciare il passo al capitalismo, ma modi di vita, o “forme di vita” e quindi anche di eticità, in conflitto con la “forma di vita” (e l’eticità) capitalista. Leggeremo in proposito il coraggioso tentativo di riattualizzazione filosofico di tali termini in Rahel Jaeggi, che rappresenta la quarta generazione (l’ultima, insomma) della Scuola di Francoforte con il suo “Forme di vita e capitalismo”. Ma si può leggere anche l’ultimo Marx, come interpretato da Marcello Musto, ed in particolare l’atteggiamento verso i populisti russi e le comuni agricole, le Mir e le Obscina, che resistono alla razionalizzazione imposta dalla rivoluzione, attuando in qualche modo per l’autore un “conservatorismo di significato”.
Ora, chiaramente ciò non significa che tutte le aree in cui vigono rapporti sociali (nelle quali si potrebbero anche annoverare le mafie) non capitalistici (o misti) “generi necessariamente un potenziale di lotta antagonista al capitalismo” (p.198). Sarebbe una posizione meccanica ed ingenua pari a quella cui si oppone. Si tratta proprio di abbandonare il punto di vista “immanentista” (che vede tutto riassumersi nella forma del capitale, considerata alla fine la più evoluta, quella al culmine di un processo evolutivo di apprendimento) ed assumere quello che “riconosce il persistere della dialettica dentro/fuori e dei confini, anche se ridisegnati in relazione all’antagonismo fra flussi e luoghi; si tratta di abbandonare l’idea che il capitale debba essere inseguito sul terreno dell’innovazione tecnologica e della ‘modernizzazione’ delle relazioni sociali, e di abbracciare invece l’idea che la lotta anticapitalista si nutre soprattutto di opposizione, resistenza e rifiuto nei confronti dei processi di modernizzazione; si tratta, in poche parole, di rompere con un’interpretazione del marxismo che svolge oggettivamente il ruolo di mosca nocchiera dello sviluppo capitalistico” (p.199).
Sono parole forti ed impegnative.
Significa in sostanza prendere parte per il lato comunitario, sapendo che per chi è connesso al paradigma “accelerazionista” ciò suona inesorabilmente “di destra” (odora di rossobrunismo).
Ecco, dunque, che si esce verso i concetti di sovranità, popolo e nazione.
Per introdurre la mossa, ovvero la “variante” (forse metafora scacchistica, di chi entro una “apertura” elabora un nuovo corso, ovvero una nuova sequenza di mosse), Carlo Formenti procede al terzo ed ultimo “racconto”. Da pag 216 procede a dare conto, sia pure brevemente, delle diverse esperienze politiche che negli ultimi anni sono state tacciate di “populismo”.
L’avvio è un riepilogo della posizione teorica di Laclau, il cui libro fondamentale, abbiamo letto da poco (“La ragione populista”) e su cui dunque, a vantaggio di spazio, non torneremo. Formenti, tuttavia, critica dell’autore (e della Mouffe) l’internità al campo epistemologico e filosofico della cosiddetta “svolta linguistica”, in particolare nella ricezione francese, e soprattutto critica l’inclinazione che interpreta come “riformista”. Una variazione di democratizzazione più o meno radicale di tipo socialdemocratico. Una “guerra di posizione” (come propone la Mouffe nel dialogo con Errejon citato nel testo), non finalizzata alla presa di potere rivoluzionaria, e preda di contraddizioni interne. In particolare tra difeso pluralismo e utilizzo di logiche polarizzanti espressamente riprese da un autore antidemocratico e totalitario, pienamente coerente, come Carl Schmitt (attraverso la coppia “amico/nemico”). Inoltre affonda i suoi denti acuminati nella contraddizione tra ruolo del leader (difeso con uso di strumentazione psicologica da Laclau) e smontaggio dei corpi intermedi, incluso partiti capaci di direzione e forza autonoma. Insomma, la critica di Formenti è di un certo eclettismo teorico e di inconsistenza strategica.
I casi che invece analizza sono: le rivoluzioni boliviane (p.212), e di Rafael Correa in particolare e poi Evo Morales. Quindi la rivoluzione venezuelana che differisce dal caso ecuadoriano e boliviano per molte differenze etniche, di classe, ed un ruolo ancora maggiore del leader, con la partecipazione attiva dell’esercito ed un più pronunciato orientamento socialista. Chàvez è descritto in modo ambiguo, con la dipendenza dal modello estrattivista e la presenza costante del grande capitale, e limiti nella implementazione di riforme di struttura. Le alternative sono descritte a pag.230, sulla base di proposte di Acosta, e presuppongono la decisione di non considerare la globalizzazione come irreversibile necessità, ma scelta contingente (sia pure di grande successo). Quindi di fare un intelligente e pragmatico delinking, riducendo la dipendenza estera anche potenziando forme di cooperazione internazionale su piede di parità.
In Europa, invece sono descritte le posizioni del M5S e di Podemos. Del primo è evidenziata la capacità di impostare una “catena equivalenziale” (termine di Laclau) che unisce l’eterogeneo simbolicamente, riclassificandolo come il “paese degli onesti”, contro i “corrotti e raccomandati”. Dato che tutti vogliono pensarsi come “onesti e meritevoli”, in particolare quando si sentono al margine del desiderio che gli viene proposto dai media e dalla cultura dominante (e quando non hanno gli strumenti per criticare), questa “catena” è potentissima e può unire la grande maggioranza. Non a caso era stata proposta con qualche efficacia già ai tempi da Berlinguer.
Ma come allora questo è anche un “discorso debole”, se non accompagnato da una visione dei nodi che creano questa dissimmetria e delle forme per superarla. Manca qualsiasi visione della struttura e dinamica del potere, non identifica “nemici” coerenti. Non è, insomma, un discorso “antisistema”.
Podemos, invece, è un progetto in parte costruito a tavolino, espressamente ricondotto alle teorie di Laclau e della Mouffe. Il “popolo” è qui interpretato come l’effetto di esplicite invenzioni discorsive e di una chiara leadership (per la quale Iglesias ha sfruttato la sua preesistente notorietà). Anche qui nella reinterpretazione della lezione gramsciana postmodernista di Laclau “la lotta per l’egemonia è intesa soprattutto come lotta per la definizione delle parole”, non come lotta delle classi definite in relazione a rapporti materiali per la ridefinizione del “senso comune”, ma una sorta di appropriazione adattiva dello stesso. Direi si possa immaginarla come una mossa di Judo dove, invece, la forma originaria era più di lotta greco-romana.
Anche qui ci si trova davanti, nella lettura dell’autore, ad un modello interclassista (nella sua programmatica ricerca maggioritaria, anzi intrinsecamente totalitaria attraverso la nominazione “del popolo”) ed esplicitamente neo-socialdemocratico.
Insomma, “Podemos non ha saputo riproporre [dai suoi modelli sudamericani] la spinta costituente, lo spirito anticapitalistico né la capacità di rilanciare i valori e gli ideali socialisti” (p.245).
Restano gli Stati Uniti, e qui si leggono le figure di Bernie Sanders e Donald Trump.
Siamo stati fin troppo lunghi, e queste note non devono esimere dal leggere il libro. Dunque chiudiamo sottolineando la metafora dello “spazio dei flussi” e di “quello dei luoghi” (che in un vecchio post avevo chiamato lotta tra “nomadi e stanziali”) e la proposta di “combattere il colonialismo”.
Ecco la questione: “i flussi” colonizzano e sfruttano (una recente versione di questa idea in Sassen), e disseminano periferie del rancore. È da queste che per Formenti bisogna partire, sono queste che bisogna ricucire in un progetto di senso per contrastare insieme “i flussi” e la proposta di senso delle destre.
Ma la lotta anticoloniale (lo vedevano anche i padri) significa ripassare per la sovranità popolare e quindi nazionale.
Non bisogna averne paura.
Articolo pubblicato su Tempo fertile
Fonte: sinistrainrete.info
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