di Gwynne Dyer
Nel giugno 2016 in Svizzera è stato organizzato un referendum sull’introduzione di un reddito minimo universale che avrebbe garantito 2.500 franchi elvetici al mese (circa 2.250 euro) a ogni abitante. Si trattava di un vero e proprio reddito di base universale, poiché ne avrebbe beneficiato chiunque, lavoratore o meno. Gli svizzeri lo hanno respinto con una maggioranza di quasi tre a uno. In Finlandia, a gennaio, il governo ha effettivamente lanciato un programma pilota di reddito di base, ma si tratta di una timida iniziativa, di portata limitata, che garantisce ai beneficiari appena 560 euro al mese. E certamente non è universale: lo ricevono solo le persone senza lavoro che ricevono il minimo del sussidio di disoccupazione.
In Canada, infine, il 23 aprile la provincia dell’Ontario ha inaugurato un programma pilota che si trova più o meno a metà strada tra gli altri due. Garantisce più denaro rispetto alla Finlandia (circa 1.400 dollari canadesi, poco meno di mille euro) e non occorre essere disoccupati per riceverli, basta essere poveri.
Affrontare le novità
“Il progetto proverà a valutare quanto sia efficace fornire un reddito di base alle persone che attualmente hanno un reddito basso, che lavorino o meno”, ha spiegato la premier dell’Ontario, Kathleen Wynne. Ma la misura è ancora lungi dall’essere universale, e i suoi sostenitori ci tengono a sottolineare che l’obiettivo finale è far sì che le persone riprendano a lavorare. Anche in Finlandia credono (o almeno dicono di credere) che l’unica soluzione alla povertà sia il pieno impiego.
Durante la loro campagna elettorale sia Hillary Clinton sia Donald Trump hanno fatto riferimento senza sosta a un’epoca di affollate catene di montaggio e di ritorno al bel tempo che fu. Trump ha perfino promesso di “riportare in patria i posti di lavoro” finiti all’estero, come se si fossero tutti semplicemente trasferiti in Cina o in Messico. Forse non sa che la maggior parte dei posti di lavoro mancanti, quelli che hanno creato la “rust belt”, cintura di ruggine, sono stati uccisi dall’automazione e semplicemente non esistono più.
Altre persone, invece, si concentrano sul vero futuro. Se si vuole comprendere l’ascesa di Trump bisogna prima descrivere quel che l’automazione sta causando ai posti di lavoro, soprattutto negli Stati Uniti. Bisogna poi pensare a come impedire che questo straordinario cambiamento provochi disastri politici, economici e sociali.
Dunque il reddito di base universale (universal basic income, ubi) oggi è d’attualità negli ambienti politici dei paesi democratici e sviluppati perché potrebbe evitare un simile disastro. Ma è curioso è che nessuna delle misure intraprese attualmente in tal senso sia davvero universale, visto che tutti ricevono lo stesso “reddito di base” a prescindere dalle loro altre entrate. Qual è il motivo?
L’ubi non è concepito solo come un mezzo più efficace e meno burocratico di sostegno ai poveri. Dovrebbe anche eliminare lo stigma sociale legato all’essere disoccupato nonché la miseria, la rabbia e l’estremismo politico che questo genera. Se il reddito di base diventa un diritto di tutti, così vuole il ragionamento, allora riceverlo non suscita né vergogna né rabbia. E se la rabbia diminuisce, allora forse i sistemi politici democratici possono sopravvivere all’automazione.
Dati preziosi
Tuttavia siamo ancora lontani dall’introdurre l’ubi su scala nazionale. Ci sarà bisogno ancora, e per molto tempo, di una maggioranza di persone che lavorano, anche se non sappiamo quante saranno quelle ancora disposte a lavorare dopo aver cominciato a percepire un salario di base. Sono questi alcuni degli interrogativi a cui gli attuali programmi pilota dovrebbero aiutare a dare una risposta.
Per ora programmi sperimentali sono presentati come progetti di lotta alla povertà, con l’obiettivo dichiarato di semplificare il sistema e di incoraggiare le persone a rientrare nel mercato del lavoro. Questo perché la popolazione non è ancora pronta ad accettare l’idea di un reddito di base universale. Resiste infatti la convinzione che si debba lavorare per vivere, anche se la società nel suo complesso è già molto ricca e il lavoro delle persone non serve davvero più Il pregiudizio è particolarmente forte nei confronti dei poveri. Come ha scritto una volta l’economista John Kenneth Galbraith, “il tempo libero è una cosa ottima per i ricchi, piuttosto buona per i professori di Harvard e pessima per i poveri. Più sei benestante e più si ritiene che tu abbia diritto al tempo libero. Per chi vive di sussidi pubblici, avere del tempo libero è considerato una cosa riprovevole”.
Anche se questi primi esperimenti dichiarano di avere come unico scopo quello di favorire l’impiego, nel frattempo serviranno a raccogliere dati preziosi sull’effettivo comportamento delle persone che hanno un reddito di base garantito.
Quando i sostenitori dell’ubi su scala nazionale si ripresenteranno con proposte concrete, tra cinque o dieci anni, potrebbero avere degli argomenti molto più solidi di quelli che hanno oggi.
Traduzione di Federico Ferrone
Fonte: Internazionale
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