La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 29 aprile 2017

Populismo 2.0 e populismo oligarchico

di Lelio Demichelis
Forma politica ambigua e scivolosa, il populismo. Trionfa nei periodi di crisi economica e sociale, quando la democrazia implode su se stessa divenendo non-democrazia e tecnocrazia. Cancella le mediazioni e la società civile, ritenendole inutili e promuovendo una rappresentanza verticale e leaderistica. Non ha un’ideologia se non quella del né di destra né di sinistra (la peggiore). E allora, qui ci si dichiara subito non populisti, anzi: anti-populisti, anche quando il populismo si propone come di sinistra. Perché il populismo semplifica e verticalizza, mentre abbiamo bisogno di un pensiero complesso e orizzontale. Perché al popolo indistinto ed eterodiretto (folla, massa, moltitudine?) preferiamo una ‘società di cittadini’ e l’idea di cittadinanza (sia pure rivista e corretta).
Perché ogni populismo è sempre e strutturalmente massificante e deresponsabilizzante (bisogna rileggere Massa e potere di Elias Canetti e oggi Il capo e la folla, di Emilio Gentile) oltre a essere esso stesso una teologia politica (parafrasando Carl Schmitt: anche tutti i concetti e le pratiche del populismo sono concetti e pratiche teologiche secolarizzate ), portato a omologare e a far sciogliere ciascuno dentro l’Uno/Tutto del popolo - o del leader che lo rappresenta e che lo usa. Perché il populismo, conseguentemente, è una forma di ‘potere pastorale’ (direbbe Michel Foucault) e quindi religioso (nel legare gli esclusi, gli impoveriti e i deprivati al pastore-populista) che da laici è impossibile accettare; perché il populismo – e il neopopulismo di questi ultimi anni - gioca sulla contrapposizione del basso (il popolo) contro l’alto (le caste, il potere, le oligarchie, l’Euro, la globalizzazione), dimenticando che oggi il potere (il biopotere del tecno-capitalismo) è diffuso, orizzontale e trasversale, è diventato una forma di vita, per cui non basta opporsi all’alto in nome del basso (che tende a restare tecno-capitalista), ma occorre un discorso di-verso.
A questo andrebbe poi aggiunto che lo stesso potere/sapere dominante (quello dei mercati, dell’Europa ordoliberale, ma anche degli oligarchi della Silicon Valley) ha prodotto un proprio specifico populismo: Trump, populista ma solo in campagna elettorale; Macron e il suo movimento/start-up En Marche, slogan biopolitico perfettamente coerente con quella dinamizzazione dell’ordine sociale che, secondo Massimo De Carolis è una delle forme di governo della vita in senso neoliberale; per non dire di Berlusconi e di Renzi. Un populismo dell’oligarchia e della tecnocrazia per rilanciare la globalizzazione, nazionalizzandola in nome di un apparente sovranismo. Populismo delle élite per la conservazione delle élite, analogamente al meccanismo di docilizzazione sociale che ha permesso di compensare la globalizzazione e la rete - de-socializzanti e impaurenti - con la creazione, da parte dello stesso potere de-socializzante e impaurente di molteplici voglie di comunità (etniche, di social network) oltre che di offerte eteronome di amicizia e di condivisione. È l’antinomia del paradigma comunitario come di quello populista, che promette di curare il male riproducendo e diffondendo il male stesso (il tecno-capitalismo). D’altra parte è la stessa rete a dirsi e a fare popolo e anche Zuckerberg è un populista oggi come ieri lo era Steve Jobs: è il populismo imprenditoriale e tecnico della Silicon Valley.
E dunque, siamo ritornati a discutere di populismo dopo La variante populista di Carlo Formenti, oggetto di una lunga riflessione su queste pagine nei mesi scorsi. Libro importantissimo, per capire l’azione devastante del neo-ordoliberalismo e degli apparati tecnici su società e individui e il perché del suicidio delle sinistre europee e delle illusioni tecnologiche post-operaiste. Dove a dividerci, con Formenti, è la valutazione sul populismo pur dovendo qui riconoscere che ogni suo argomentare è una sfida difficile e impegnativa con se stessi e con le proprie idee. Libro che oggi integriamo con altri due saggi sul tema. Il primo è di Damiano Palano, intitolato semplicemente Populismo e che inizia ricordandoci il film di Frank Capra, Mr. Smith Goes to Washington (1939), che metteva appunto in scena «lo spettacolo sconfortante di una democrazia soffocata dai gran­di gruppi economici, capaci di asservire ai loro inte­ressi le istituzioni e di manipolare i rappresentanti eletti dal popolo». Libro importante questo di Palano, non solo perché è una ricostruzione esaustiva e pregevolissima del populismo («etichetta vaga e disinvolta», nella polisemia del termine), che accompagna la modernità dal suo nascere – dal populismo russo e americano di fine ‘800 ai populismi che in soli vent’anni vive l’Italia a cavallo del millennio (da Berlusconi-Bossi a Grillo e Renzi), fino a Trump e a Marine Le Pen. Un populismo che ci piace definire – tra le molte interpretazioni cui Palano ci rimanda e ci guida – con Loris Zanatta, secondo il quale il nucleo forte del populismo è in una vera e propria «cosmologia», ossia «in una visione del mondo» che raffigura il popolo nei termini di una comunità organica, se non addirittura di un orga­nismo naturale, all’interno della quale non c’è spa­zio per il conflitto o il dissenso, ma solo per l’unità del corpo collettivo. Si tratta dunque di una visione del mondo «tipica di epoche dominate dal sacro, in base alla quale […] le società umane sono intese come organismi naturali, paragonabili per essenza e funzionamento al corpo umano, la cui salute e il cui equilibrio comportano la subordinazione degli individui al piano collettivo che li trascende» - e oggi il corpo collettivo è divenuta la rete o la Silicon valley, luogo sacro della religione tecno-capitalista. Conclude Palano: «È così, probabilmente proprio per la sua voca­zione a una totalità irraggiungibile che il populi­smo porta in sé una minaccia per la democrazia, se non addirittura una implicita tensione ‘totalitaria’. Aspirando a farsi portavoce del popolo, inteso come un ‘tutto’ omogeneo e moralmente ‘puro’, presen­ta infatti una tendenza congenita a negare i diritti delle minoranze, che invece costituiscono una delle fondamenta della democrazia liberale. (…) Ma se questi rischi esistono (…) si tratta per molti versi degli stessi rischi che contrassegnano e qualifi­cano la democrazia. E cioè i rischi di un assetto po­litico che affida solennemente proprio al ‘popolo’ il potere sovrano, senza però poter mai stabilire una volta per tutte quali siano i suoi diritti e quali i suoi bisogni fondamentali. Tanto che, per sfuggire al ri­schio del populismo, può paradossalmente persino rischiare di tramutarsi in una democrazia senza po­polo». ­
Il populismo, aggiunge Marco Revelli in Populismo 2.0, è « malattia infantile della democrazia quando i tempi della politica non sono ancora mauri. È malattia senile della democrazia quando i tempi della politica sembrano essere finiti». In entrambi i casi vi è un deficit di rappresentanza, drammatico per una democrazia che si dice rappresentativa. Ecco allora il populismo, parola indeterminata ma anche ‘pigliatutto’ che obbliga a ragionare di populismi e non solo di populismo, oltre che di populismi tradizionali e di populismo emergente, appunto 2.0. Revelli si concentra soprattutto su quest’ultimo e sulle cause che l’hanno prodotto: la dissoluzione degli antichi contenitori sociali novecenteschi, la transizione antropologica delle masse «da produttori-consumatori a consumatori tout court o a consumatori consumati secondo Benjamin Barber» (scomparso da pochissimo), la mutazione delle stesse élite. Il (neo)populismo non è un ismo come gli altri, ma è un mood, «la forma informe che assumono il disagio e i conati di protesta nelle società sfarinate e lavorate dalla globalizzazione e dalla finanza totale … Nel vuoto di quella che un tempo fu la sinistra e la sua capacità di articolare la protesta in proposta di mutamento e di alternativa allo stato di cose presente». Il neopopulismo non è un incidente della storia ma l’effetto deliberato del neo-ordoliberismo che ha prodotto deprivazione, impoverimento, esclusione sociale, de-socializzazione (e Revelli offre una quantità impressionante di dati sulla sovrapposizione tra impoverimento/esclusione e crescita del populismo), e quello che era stato «il protagonista che aveva alimentato il simbolismo e l’immaginario, oltre al consenso elettorale e all’apparato organizzativo di tutte le sinistre del secolo del lavoro, è ora un’ampia componente del nucleo duro, forse non maggioritaria ma sicuramente coriacea» del neopopulismo. Cui ora si aggiunge gran parte del vecchio ceto-medio. Sono i nuovi homeless della politica, scrive Revelli, deprivati e spaesati e umiliati dalla distanza che vedono crescere tra loro e chi sta in alto, gli unici visibili massmediaticamente e politicamente. Di più, «quasi ovunque l’agitazione neopopulista in basso viene utilizzata da chi sta in alto, senza apparente contraddizione». Eppure, conclude Revelli, «basterebbero forse dei segnali chiari per disinnescare almeno in parte quelle mine vaganti nella post-democrazia incombente… Quello che un tempo si chiamava riformismo e che oggi appare rivoluzionario. Ma si sa, Dio acceca coloro che vuol perdere».

Fonte: Alfabeta2.it 

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