di Alfonso Gianni
E’ certamente un caso che il forte richiamo al parlamento da parte di Sergio Mattarella e il deposito delle firme sulla petizione popolare a favore di una legge di tipo proporzionale, senza premi di maggioranza, capilista bloccati e candidature plurime, siano avvenuti nel giro di poche ore. L’appuntamento della delegazione dei comitati con i presidenti delle camere era del resto fissato da tempo. Si parva licet, la quasi contemporaneità dei due fatti ha rimarcato che, sia dall’alto che dal basso, è in atto una pressione convergente nei confronti di un parlamento che, per quanto delegittimato dalla sentenza della Consulta sul Porcellum, ha almeno il dovere di mettere il paese in condizioni di andare a nuove elezioni sulla base di una legge elettorale coerente con la Costituzione.
La conferenza dei capigruppo della Camera ha fissato l’esame dell’aula per il 29 maggio. Ma, come ci ha ribadito Laura Boldrini nell’incontro dell’altro ieri, quel termine non è per ciò stesso tassativo. Se la commissione affari costituzionali non approderà per quella data ad un testo base – quelli fin qui depositati sono diversi e fra loro contradditori -, ci sarà probabilmente un ulteriore scivolamento come è accaduto nei mesi precedenti. Per questa ragione nei prossimi giorni la delegazione dei comitati incontrerà anche i presidenti delle commissioni di merito dei due rami del parlamento.
Tuttavia Renzi non appare più l’arbitro e il metronomo della situazione. La stessa scadenza delle primarie di domenica prossima subisce un ulteriore ridimensionamento, quanto a incidenza sul piano politico, dopo che già aveva mostrato di non scaldare gli animi di nessuno, fatta eccezione quelli dei diretti protagonisti. Non solo, ma la consacrazione definitiva del Pd come il partito di Renzi sembra spalancare le porte a nuove diaspore «eccellenti». Si parla di Cuperlo, sempre sull’uscio di casa, o del resto dei prodiani. Naturalmente Renzi, temporaneamente impedito dall’intervento del Capo dello Stato nella minaccia di elezioni anticipate, gioca al tiro al piccione sulle varie ipotesi di legge elettorale, comprese quelle nate nel suo partito. Come nel caso di quella fondata sui collegi uninominali a base proporzionale. Una rivincita del metodo delle elezioni provinciali dopo l’abolizione delle stesse.
Ma non è un gioco che può durare all’infinito. Renzi, per quanto spregiudicato sia, non può un giorno dichiarare di essere pronto ad andare a votare subito con qualsiasi legge elettorale – per non gravarsi prima delle urne del peso di una legge di bilancio non certo popolare -, e il giorno successivo bocciare ogni proposta in campo, dopo il declino – sembrerebbe – dell’amato Mattarellum. Il che vale anche per il Movimento 5 Stelle, che propone, attraverso la loquace onnipresenza di Di Maio, di applicare al Senato quel che resta dell’Italicum dopo l’intervento della Consulta, compreso quindi capilista bloccati e premio di maggioranza, contraddicendo il sostegno dato ai ricorsi contro il medesimo.
Ma se i tempi stringono, questo vale soprattutto anche per chi si colloca alla sinistra del Pd. Sarebbe stucchevole attendere di sapere quale sarà la soglia di sbarramento risultante dalla armonizzazione fra Senato (ora all’8%) e Camera (attualmente al 3%). Si parla del 4 o del 5%. In ogni caso nessuna delle forze esistenti che si richiamano esplicitamente ad un’alternativa al Pd, è da sola in grado di farcela. Chi invece vuole ricostruire il centrosinistra – malgrado Renzi respinga sdegnoso la profferta – al punto da pensare di farlo da solo (come ha detto Pisapia), ha meditato poco su quanto è successo nel nostro paese e in Europa. Ciò che manca da noi è una sinistra dotata di credibilità e massa critica. Se la si vuole costruire bisogna prioritariamente avere a cuore la delineazione della sua identità ideale, politica, progettuale, quindi la sua autonomia.
Serve dunque l’apertura di un processo costituente, la fissazione di essenziali punti programmatici – di non difficile individuazione -, senza i quali la divisione si riproporrebbe il giorno dopo, insieme ad un sano spirito di scissione gramsciano nei confronti dell’attuale quadro politico. Anteporre la scelta delle alleanze significa uccidere il nuovo soggetto in grembo. Non si tratta d’altro canto di affondare in un generico populismo. Ma di ingaggiare una lotta fra sinistra e destra al suo interno, avendo ben chiaro che non si tratta solo di rappresentare ma di essere nel popolo e nel movimento. La Francia ce lo ha mostrato. Le prossime elezioni – come le europee del 2019 – non sono tutto, ma un banco di prova di questo processo che lo travalica e che però non può essere saltato. Per questo la reintroduzione del proporzionale è decisiva. Unirsi è un obbligo, oltre che un dovere politico, ma per costruire una sinistra che non c’è.
Fonte: Il manifesto
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