di Alessandro Visalli
Alcune proposizioni sul “nodo Europa”:
1- Il nord Europa tiene il freno a mano ben alzato, con la sua forte interconnessione industriale e finanziaria ed i suoi “clientes” orientali, nel timore che il sud “spendaccione” chieda l’accesso ai suoi forzieri.
2- Questa retorica è molto pagante sul piano elettorale (e alla radice del successo della Merkel ed anche Schultz non sembra poterne fare a meno), proprio in quanto consolante sul piano identitario, e diventa quindi un fondamentale elemento di stabilità in primis nelle ineguali e competitive società del nord.
Un poco come succedeva nel sud degli Stati Uniti prima della guerra di secessione, il senso di superiorità di gruppo verso un altro gruppo sottomesso contribuisce in modo decisivo a tenerlo insieme, facendo dimenticare ai perdenti che sono dentro di esso la loro condizione (nel sud schiavista l’esistenza dei neri era il fondamentale meccanismo di stabilità sociale, in quanto ogni bianco –anche se povero e sovrasfruttato- poteva comunque sentirsi parte di una classe superiore). Dunque la retorica del “sud cicala” e “pigro” è un insuperabile mezzo di controllo sociale in primis verso le vittime del modello mercantilista (gli “hartzati” si potrebbe dire). La stessa cosa, come ricorda Gramsci, avveniva nel nord Italia subito dopo l’unità, quando le selvagge condizioni di sfruttamento degli operai del nord erano in qualche modo ‘compensate’ dalla retorica del sud “fannullone”.
Un poco come succedeva nel sud degli Stati Uniti prima della guerra di secessione, il senso di superiorità di gruppo verso un altro gruppo sottomesso contribuisce in modo decisivo a tenerlo insieme, facendo dimenticare ai perdenti che sono dentro di esso la loro condizione (nel sud schiavista l’esistenza dei neri era il fondamentale meccanismo di stabilità sociale, in quanto ogni bianco –anche se povero e sovrasfruttato- poteva comunque sentirsi parte di una classe superiore). Dunque la retorica del “sud cicala” e “pigro” è un insuperabile mezzo di controllo sociale in primis verso le vittime del modello mercantilista (gli “hartzati” si potrebbe dire). La stessa cosa, come ricorda Gramsci, avveniva nel nord Italia subito dopo l’unità, quando le selvagge condizioni di sfruttamento degli operai del nord erano in qualche modo ‘compensate’ dalla retorica del sud “fannullone”.
3- la struttura dell’equazione economica è cambiata nelle condizioni della globalizzazione, e continua a farlo. L’interconnessione e i flussi di capitali, merci, in misura minore uomini, domina i labili confini statali e tiene sotto ricatto i bilanci fiscali nazionali. Nessuno può più immaginare, fermo il sistema di regole (o meglio il sistema di libertà esistente), di fare il keynesismo in un solo paese, in conseguenza nessuno dispone della totalità delle leve decisionali a disposizione.
4- l’ineguaglianza è cresciuta e con essa il potere delle “classi dirigenti” che sono in grado –internazionalizzandosi- di liberarsi del controllo democratico, rimasto invece piantato a terra. Uno degli effetti più forti è il controllo sui dibattiti e sull’opinione pubblica che impedisce di vedere come questo “frame” non sia un effetto naturale di una dinamica storica irresistibile (secondo una filosofia della storia che vorrebbe il mondo procedere verso una sempre maggiore unificazione), ma uno specifico progetto economico e sociale con potenti implicazioni politiche (anche se non c’è un vero e proprio “progettista”).
5- la stessa globalizzazione è solo una reazione complessa dal loro punto di vista, adattiva e cumulativa, ad un insieme di problemi che non trovavano soluzione entro il quadro nazionale. Sono, in qualche modo gli interessi delle élite all’opera. Tra questi la scarsità di occasioni di investimento, determinata da una caduta del saggio di profitto considerato accettabile, per effetto di una distribuzione generata dalla dinamica delle lotte operaie del trentennio precedente, percepita come “iniqua” (cfr. Streeck). I problemi, manifestati a livello macro dalla disoccupazione crescente e dalla tendenziale stagnazione (a sua volta effetto anche delle dinamiche demografiche e della debolezza della domanda interna), cercano una soluzione a breve termine nell’internazionalizzazione. Mi sembra si possa riassumere (anche se si tratta di dinamiche strettamente interconnesse nelle quali la direzione causale è complessa) che questa è una soluzione perché crea insieme: sbocchi ai capitali in cerca di remunerazione, abbassa il costo del lavoro sia nei luoghi di investimento (quindi di delocalizzazione industriale) sia in patria (per effetto dell’effetto “disciplinante” del ricatto sui lavoratori), importando le merci prodotte nei paesi in convergenza –dove costano meno anche a causa del dumping salariale, ambientale e sulla sicurezza- innalza indirettamente anche il potere di acquisto in patria (deflazione importata), tenendo anche sotto controllo l’inflazione (e dunque salvaguardando, per questa via, il potere di acquisto dei capitali). La bassa inflazione, che è obiettivo e risultato di tutto ciò, alzando il tasso reale di remunerazione del capitale, rafforza enormemente il circuito.
6- il premio di tutto questo è la paura, per chi non è in grado di “alzarsi” sul suolo e vivere nel “mondo dei flussi”. L’insicurezza e l’abbandono alle proprie sole forze, l’incertezza sul futuro, man mano che tutti i baluardi eretti nel novecento contro l’incertezza del vivere crollano. Ormai ad ognuno viene raccontato che sono problemi suoi, che i fallimenti sono individuali, che c’è qualcosa di sbagliato in lui se non è utile, se il lavoro non è disponibile, se non è abbastanza flessibile, abbastanza disciplinato, abbastanza ragionevole. E’ la società che genera, dato il suo livello di sviluppo delle forze produttive e le modalità di produzione determinate dalle regole e dalle tecnologie, le occasioni messe a disposizione dell’individuo. Ma è quest’ultimo che, con le sue sole forze, deve conquistarle in competizione con ogni altro. E’ come a quel gioco che facevamo da bambini nel quale bisogna correre a sedersi quando finisce la musica; ma qui ci sono sedie al massimo per la metà dei danzanti. Non stupisce questo senso sottile di ansia che si respira nell’aria.
7- Il progetto europeo storicamente dato è un modo delle élite di reagire a tutto questo.
8- Ma è anche qualcosa di altro, una versione rinnovata dell’imperialismo europeo. Una ripresa dell’orgoglio e del nazionalismo ad una scala “rialzata di un piano” (per usare in modo diverso dall’autore una immagine di Habermas) in proiezione ostile sia verso gli aspiranti egemoni emergenti, sia verso il ‘vecchio’ egemone statunitense. La nuova direzione statunitense non nasconde di vederla in questo modo (si confronti, ad esempio l’intervista di Theodore Roosevelt Malloch di cui abbiamo parlato in “Angolature di nazionalismo”). Come si trova in tante fonti disparate, ad ascoltarle con attenzione, il progetto è tornare a dominare il mondo. O, si dice sempre in forma universalista, tornare a farsi rispettare per poter dettare le regole per il bene di tutti. Bisogna ricordare che l’imperialismo europeo classico, quello ottocentesco, è sempre stato cosmopolita e nutrito di una fondamentale coesione culturale delle élite. L’espansione era sempre promossa per il superiore interesse della civiltà, e la competizione mitigata dal senso di appartenenza comune alla civiltà occidentale. Il ‘nazionalismo cosmopolita’ dell’europeismo classico, e anche –sospetto- della riproposizione contemporanea in forma di ‘nazionalismo in grande taglia’ non è solo un discorso di affermazione di potenza intrinsecamente gerarchico, ma insieme e intimamente una forma di universalismo utopico-idealista incorporante una filosofia della storia di derivazione illuminista-positivista. Questo universalismo include una svalutazione delle unità ‘minori’ che si sceglie di non riconoscere perché ‘fuori della storia’. L’universalismo sconfina così nel razzismo e questo, per via di proiezione, nell’autorazzismo.
9- Offre in tal senso uno scambio alle élite delle periferie interne, o per dirla meglio delle colonie interne, da parte del centro imperiale: accettare di essere soci di minoranza in una grande società egemone mondiale. Essere, cioè, le “marche di confine” nell’impero centrale che finalmente, sulle orme millenarie del Sacro Romano Impero (che, come ironizzava Voltaire non era né Sacro, né Romano e neppure Impero) come talvolta dice Schauble, riprenderà il suo posto nel mondo perso nelle guerre del novecento. Ogni tanto qualcuno lo ricorda in un momento di sincerità, lo ha fatto di recente Prodi, ma lo fece anche il ministro degli esteri italiano, Colombo, nella discussione parlamentare sul Trattato di Maastricht. Allo stretto dietro la strana storia di recuperare un’autonomia di potenza, incrinata dalle stesse politiche ‘conformi al mercato’ promosse dalle élite economiche per le ragioni prima ricordate, trova una quadra nella storia delle umiliazioni subite: Versailles e Bretton Woods.
10- Si tratta quindi di un progetto delle élite e per le élite che non ha alcun rispetto di noi. Si tratta di un progetto di centri e periferie, di imperi e colonie. E si tratta di un progetto di disciplinamento, volto a depotenziare sistematicamente (attraverso potenti strumenti come la moneta unica ed il suo guardiano indipendente, la Corte di Giustizia Europea ed il relativo diritto, la tecnocrazia quasi onnipotente) la democrazia popolare nel solo luogo in cui storicamente aveva avuto un relativo successo: le realtà nazionali democratiche e costituzionali.
Dunque la dico bruscamente: gli ideali dell’Unione Europea sono un equivoco.
O meglio, sono un autobus con troppi passeggeri (magari una casa mobile, molto grande e con tante stanze tra loro diverse). Le generose utopie cosmopolite sono sempre state, in questo strano veicolo, il “salotto buono” nel quale si accoglievano gli ospiti, mentre la “cucina” svolgeva il suo duro lavoro.
Nel ‘salotto’, luogo di elezione delle élite cosmopolite, si dice che:
- Unirsi evita la guerra, dimenticando che la pace è sempre stata garantita, sia nel secolo all’ombra della flotta inglese, tra le guerre napoleoniche e il 1914, sia nei settanta anni che ci separano dalla seconda guerra mondiale, da un egemone equilibratore.
- “Chi commercia non combatte”. L’idea che è dentro l’idea è più antica, è il commercio, cioè lo spirito del capitale e dell’interesse per l’arricchimento, che impedisce che altre passioni negative (l’onore, l’orgoglio), incoraggino la violenza e la rapina. Questa idea è incorporata nel passaggio chiave del testo di Kant sulla “Pace perpetua” e continuamente riproposta dai moralisti, e dai primi economisti, settecenteschi. Purtroppo chi commercia, se lo fa nelle modalità imperiali e debilitanti del modello tedesco, determina dominazioni e sbilancia i sistemi sociali ed economici. Crea debiti e crediti che in definitivamente si accumulano fino a diventare insopportabili, a quel punto avviene il contrario di quel che si desiderava, e chi commercia passa a fare la guerra per redimere o per riscattare i suoi debiti/crediti. È, in effetti il debito che provoca le guerre. Non a caso Keynes presenta il suo progetto a Bretton Woods come “un progetto di disarmo finanziario”.
La “cucina” si è sempre invece occupata di conservare un qualche equilibrio tra le spinte del mondo bipolare uscito dal dopoguerra, prima, e del mondo unipolare successivo.
Come avevamo già scritto il rischio è che mentre il “salotto” si trastulla nei suoi sogni ad occhi aperti, la “cucina” ci prepari una “torta a tre piani” che si aggiunga a quella già cucinata dall’unione ottocentesca:
- sopra i paesi nordici, destinatari dei flussi di capitale dal Sud attraverso il sistema “target 2” definito dal Trattato di Maastricht insieme all’Euro, suo necessario strumento, luogo di creazione dell’industria centrale a maggiore valore aggiunto e vocazione all’esportazione, destinatario dei flussi migratori di qualità;
- in mezzo le ex aree ricche dei paesi “periferici”, l’area di Parigi, la pianura padana, forse parte dell’est tedesco, i paesi dell’estremo Nord, che fungono da sistemi d’ordine subalterni in una scala di “centralità” gerarchica;
- in fondo i bacini di riserva di mano d’opera e le colonie interne (le aree periferiche, l’Irlanda, Spagna e Portogallo, la Grecia, il centro-sud italiano, l’est europeo).
Questa è la geografia economica che si sta preparando attraverso la retorica europea. Questa la meccanica ed il funzionamento del mondo che è implicato nell’idea gerarchica imperialecoscientemente praticato dal centro egemonico nordico. Un mondo ordinato per “centri d’ordine” che proiettino la propria potenza su ambiti delimitati e subalterni, in una gerarchia che vede ovviamente per l’Italia un posto specifico, e non è al vertice.
Se dunque c’è potenza in questo sogno, non è per noi. A noi ci aspetta il destino del mezzogiorno, nel tempo che sarà necessario.
È questo di cui bisognerebbe parlare, per non ripetere gli errori del Risorgimento. Ed in particolare, per chi è interessato alla visione della sinistra, quelli del “Partito d’Azione”.
La meccanica, come viene mostrato anche dalla geografia economica, malgrado quel che generosamente immaginava negli anni cinquanta Kuznets, è che senza l’impiego di massicce politiche compensative e adattive (che il liberismo internazionalista esclude a priori) la spontanea progressiva riallocazione dei fattori produttivi (capitali, lavoratori) nei luoghi in cui sono marginalmente più produttivi, conduce al termine di un processo logico ed irresistibile, che nel caso italiano è durato centocinquanta anni, a condizioni di squilibrio e ineguaglianza che catturano porzioni molto rilevanti della popolazione ed intere aree geografiche in condizioni subottimali di disattivazione delle potenzialità umane, sociali ed economiche.
In questa geografia economica fatta di dominazioni e subalternità viene preso tutto, le condizioni materiali, i percorsi di vita, le dotazioni infrastrutturali, le tradizioni e culture, le dinamiche discorsive, gli effetti politici.
In Italia siamo giunti lentamente (come la rana nella pentola di acqua fredda della favola) ad uno stato in cui, in un modo che non si vede facilmente come non essere permanente, una parte che corrisponde a ca. il 40% della popolazione italiana è catturata in una condizione di dipendenza economica e ritardo fortemente resistente ai tentativi di superamento. I fattori penalizzanti, per uomini e capitali, accumulati nei decenni sono infatti tali da creare un dilemma senza uscita, o almeno per la cui soluzione sarebbero necessarie risorse che è materialmente e politicamente molto difficile mobilitare per il tempo necessario, come l’esempio degli anni cinquanta e sessanta mostra.
La questione è che, abbandonata alle forze animali dei mercati, come vorrebbe il liberismo anche contemporaneo, l'unione tra forze diseguali e tra diverse esigenze riduce e non aumenta la possibilità di avere uno sviluppo reale inclusivo. La forza molecolare delle convenienze, sotto il pungolo della competizione, spinge sempre verso la concentrazione. In linea teorica queste forze di attrazione possono essere contrastate, ma significherebbe trasferire, in modo intelligente, di nuovo verso le aree “deboli” (rispetto ai fattori che fanno “forza” per i mercati) ciò che spontaneamente se ne va in termini di vantaggi localizzativi. Investire cioè e massicciamente in istruzione, infrastrutture, incentivi almeno il 5% del PIL (stima media condivisa in letteratura) e per decenni.
Ciò che accadrà, se tutto questo non viene compreso e disinnescato, è che le élite accentueranno la loro reazione difensiva dalla democrazia. Che questa prenderà una forma sempre meno attraente, esprimendo la paura ed il risentimento di chi resta catturato nei luoghi dello sfilacciamento e del degrado.
Che progressivamente la divaricazione romperà ogni possibilità di creare una qualche unione culturale e politica fondata sul consenso.
Ci resterà da scegliere tra la fine della democrazia o la fine del progetto europeo.
Fonte: Tempo fertile
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