di Attilio Pasetto
L’economia italiana sembra aver imboccato una velocità di crociera attorno all’1%: è cresciuta dello 0,9% l’anno scorso (1% a parità di giorni lavorativi) e dovrebbe crescere in un range compreso fra lo 0,9 e l’1,1% nel 2017. Meglio di niente, ma sempre troppo poco rispetto alla crescita europea, peraltro non eccelsa: l’area dell’euro è cresciuta dell’1,7% nel 2016 e dovrebbe crescere tra l’1,7 e l’1,9% quest’anno. Segnali positivi stanno venendo dagli investimenti privati in macchinari e mezzi di trasporto, aumentati del 4,6% nel 2016, che dovrebbero proseguire la loro corsa anche nel 2017, mentre sono in flessione i consumi delle famiglie, a causa della riduzione del reddito disponibile dovuta sia alla troppo debole dinamica salariale sia al rialzo dell’inflazione.
Manca una scossa in grado di trasformare un lento recupero congiunturale in una vera crescita. Per chi crede nelle politiche keynesiane viene spontaneo pensare che questa spinta potrebbe venire dagli investimenti pubblici, i grandi assenti in questa fase congiunturale. In realtà gli investimenti pubblici anche nel 2016 sono diminuiti (-4,5% rispetto al 2015), proseguendo una tendenza negativa che dura dal 2009. In quell’anno avevano raggiunto i 54,2 miliardi, nel 2016 sono scesi a 35,1 miliardi (-35%), mentre nello stesso periodo la spesa primaria aumentava dell’8%. Con la conseguenza che ora rischiamo l’apertura di una procedura di infrazione da parte della Commissione europea, per il mancato utilizzo della clausola di flessibilità degli investimenti (0,25% del Pil) che ci era stata concessa con la Finanziaria 2016.
Eppure in molti si aspettavano che l’anno scorso il crollo si sarebbe arrestato, dopo una serie di misure prese dal governo Renzi dal 2014 al 2016: dal lato delle risorse, il decreto “Sblocca Italia” del 2014 e due manovre finanziarie (2016 e 2017) che hanno aumentato gli stanziamenti per le infrastrutture (utilizzando tra l’altro la clausola di flessibilità); dal lato degli interventi di contesto, l’abbandono del patto di stabilità interno degli enti locali sostituito dal pareggio di bilancio, il nuovo codice degli appalti, l’avvio della riforma della pubblica amministrazione, un maggior impegno nella lotta alla corruzione attraverso l’Anac di Raffaele Cantone. Ma i risultati ancora non si vedono.
Ora, è vero che gli effetti di una politica di rilancio degli investimenti non sono immediati. Tuttavia sono note le difficoltà che l’Italia da sempre incontra nel portare a termine gli investimenti in infrastrutture. Difficoltà non tanto dovute alla mancanza di risorse finanziarie, come dimostra la lunga vicenda dei fondi strutturali europei, quanto ad altri fattori: scarsità di buoni progetti prontamente realizzabili, burocrazia e lentezza dei processi decisionali degli enti pubblici, frequenti casi di corruzione, grandi ritardi nell’esecuzione delle opere con conseguente aggravio sui costi. Un esempio è la ricostruzione post-terremoto dell’Italia centrale, che, esaurita la fase dell’emergenza, sta procedendo a rilento non perché non ci siano i fondi, ma per la lentezza e la difficoltà di coordinamento degli enti pubblici, la pesantezza delle regole da rispettare. A questo si aggiunga che il nuovo codice degli appalti, in vigore da aprile 2016, è stato subito oggetto di revisione a causa delle numerose critiche sia degli enti locali che dei costruttori. Anche le nuove regole di bilancio per i comuni non stanno producendo effetti. Secondo l’ultimo Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica della Corte dei Conti, i pagamenti per gli investimenti delle amministrazioni locali nel 2016 sono scesi sotto i 15 miliardi, il 15,4% in meno rispetto al 2015.
Si deve quindi concludere che gli investimenti pubblici in Italia non funzionano e che per rilanciare la domanda sarebbe meglio abbassare le tasse? No, anche perché gli investimenti normalmente hanno un effetto espansivo maggiore rispetto alla detassazione, che non si traduce tutta in nuovi consumi, e inoltre accrescono lo stock di capitale, che produce reddito differito. Bisogna però saperli far funzionare: non basta stanziare le risorse, occorre impiegarle bene, in opere utili, e velocemente, monitorando attentamente lo stato di avanzamento delle opere finanziate.
Fonte: Eguaglianza e Libertà
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