di Samuele Mazzolini
Celebrato da rialzi di borsa e dalle fanfare in tripudio dei media tradizionali, il vincitore indiscusso della prima tornata delle presidenziali francesi è il 39enne Emmanuel Macron. Volto pulito, un pedigree da studioso presso i migliori atenei francesi, un passaggio come banchiere presso la Rotschild e un altro per i palazzi del potere, il favorito alla successione di Hollande ha tutte le credenziali dell’uomo delle istituzioni, dell’anti-populista per antonomasia. Eppure il suo trionfo ci insegna che quando il sistema è in difficoltà, il populismo è un ottimo espediente strategico anche per chi non lesina la distribuzione di questo epiteto a scopi denigratori. Non a caso si parla spesso della nostra epoca come di un momento populista, ovvero di un periodo anomalo, politicamente fluido, marcato da un disorientamento generale che permette una continua e veloce ridefinizione delle identità politiche.
Oltre al populismo di destra e di sinistra, esiste quindi un’ulteriore variante, pericolosa quanto la prima, ma più subdola: il populismo di centro.
Oltre al populismo di destra e di sinistra, esiste quindi un’ulteriore variante, pericolosa quanto la prima, ma più subdola: il populismo di centro.
Macron ha infatti condotto la campagna elettorale su un territorio rappresentativo parallelo a quello di Marine Le Pen, scegliendo dei luoghi di enunciazione privilegiati che gli hanno permesso di aggirare lo scarso radicamento della sua formazione. Come analizzato acutamente da Guillermo Fernández, anche lui ha costruito l’immagine di una Francia decadente, responsabilizzando i governi precedenti di questa situazione e, guarda caso, dipingendo la congiuntura attuale come un punto di inflessione a cui dar risposta immediata, destando quell’accelerazione politica tipica dei movimenti populisti che ha nell’imminente il suo orizzonte temporale privilegiato.
Al pari di Marine Le Pen, ha proposto una serie di frontiere politiche tra “noi” e “loro” che rifiutano la classica opposizione destra/sinistra: fratture nuove in grado di legarsi alle diverse fonti del malcontento sociale più di quanto non lo facciano le vecchie etichette politiche. Nel discorso di Macron, la società civile – delle cui energie migliori lui sarebbe il naturale portabandiera – viene opposta a un sistema partitico incancrenito; i progressisti – intesi come coloro che vogliono entrare nel nuovo secolo e hanno a cuore la modernizzazione, l’innovazione, le competenze – sono invece opposti a coloro che “desiderano proteggere un ordine antico e non vogliono cambiare le cose”. Un discorso sulla falsariga di quello che ha contrapposto i moderni “rottamatori” ai “gufi”, i “rosiconi” e i “professoroni”. Proprio per questo, come segnalava il 24 aprile Marc Lazar a Otto e Mezzo, il pericolo più grosso per Macron verso il ballottaggio è l’abbraccio mortale della vecchia classe politica, che saboterebbe l’immagine sin qui confezionata, facendo sponda a Marine Le Pen quando lo accusa di appartenere a una casta da cui si è solo strumentalmente allontanato. E infine la personalizzazione della politica, con un movimento (En Marche) costruito su misura e le cui iniziali ricalcano quelle del suo nome e cognome (l’aveva fatto anche Rafael Correa in Ecuador con la Revolución Ciudadana).
Rispetto agli altri populismi, tuttavia, il populismo di centro è quello del “tutto cambia, affinché nulla cambi”. Un populismo gattopardesco, della conservazione dello status quo attraverso l’invenzione di nuove faglie e dicotomie. In questi giorni i media ci propinano fino alla nausea la tesi del tracollo dei partiti tradizionali. È vero, socialisti e gollisti escono entrambi sconfitti per la prima volta nella storia della V Repubblica, ma certo non ne escono sconfitte le ricette economiche e sociali anti-popolari di cui questi attori politici sono stati portatori negli ultimi anni. In questo senso, Macron ci porta in dote más de lo mismo, pur avvolto in un pacchetto che fa del liberismo e dei suoi programmi di tagli a quelli in basso e regali a quelli in alto un qualcosa di sexy, ammantato di un che di progressista.
Il francese non è solo. Lo ha preceduto Renzi, ci ha provato Albert Rivera in Spagna. Lo potremmo anche chiamare “il populismo dei quarantenni”, di quelli che dietro ad agende estremamente moderate non fanno altro che proporre un ricambio generazionale ricco di fronzoli, ma avaro di elementi di rottura sostanziale con il passato. Segno del fatto che l’ordine sociale che ci attanaglia non gira attorno ai politici, i quali rimangono solo dei tristi camerieri di interessi più alti e più avidi, e che quando rompono i piatti mettendo a repentaglio la tenuta del sistema, vengono soppiantati da altri più giovani e meno compromessi.
Articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano (online) il 26.4.2017
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