di Marco Bersani
Per affrontare il tema della relazione fra i movimenti e la democrazia e fra il conflitto e la rappresentanza, occorre uscire dall’astrattezza e porsi una domanda concreta: come coniugare le istanze di trasformazione sociale portate avanti dai movimenti in questi anni con lo stato attuale della democrazia? Il quesito riguarda l’efficacia delle lotte sociali in campo, a fronte del “muro di gomma” di istituzioni, capaci perfino, non solo di non realizzare, bensì di attaccare in ogni modo e a qualsiasi livello, un pronunciamento della società intera, come quello che si è avuto cinque anni fa, con la straordinaria vittoria referendaria sull’acqua.
Occorre a mio avviso partire innanzitutto dall’analisi dello stato della democrazia, che, in estrema sintesi, potremmo definire drammatico. Assistiamo, infatti: a livello internazionale ad un progressivo spostamento dei luoghi decisionali dalle sedi statuali a quelle di grandi istituzioni finanziarie transnazionali, quando non a luoghi indefiniti, teatro dell’azione di lobby che spesso determinano le scelte politiche; a livello nazionale, al progressivo spostamento dei poteri dalle assemblee elettive agli esecutivi; a livello locale, alla progressiva espropriazione di ogni democrazia di prossimità, attraverso la esternalizzazione di ogni servizio e funzione pubblica.
Naturalmente, il progressivo svuotamento dei poteri delle assemblee elettive e delle istituzioni democratiche non avviene per qualche complotto eterodiretto e univoco: sono infatti le stesse autorità pubbliche a promuovere la propria dissoluzione, dimostrando come da tempo il “pubblico” abbia progressivamente trasformato la propria funzione da garante dei diritti e dell’interesse generale a facilitatore dell’espansione della sfera d’influenza dei grandi interessi finanziari sulla società.
Quanto sta avvenendo sul versante della democrazia e delle istituzioni evidenzia alcune caratteristiche precise: la segretezza e l’opacità delle scelte (d’altronde, dizionario alla mano, il contrario di “pubblico” è “segreto”), la privatizzazione della politica (la spazio pubblico è trasformato in arena per interessi di gruppo familistico, lobby economica, clan, perfino all’interno del medesimo partito), la teologia della governabilità, ovvero, quell’idea per cui tutto avviene dall’alto e l’unico problema diviene come prendere quel potere.
Tra l’altro, la teologia della governabilità è anche una delle cause del fallimento nell’ultimo decennio della sinistra radicale, che, impregnata dall’idea dello stare al governo – locale o nazionale che fosse - come unica possibilità di produrre cambiamento, si è ritrovata progressivamente svuotata di ogni senso e di qualsivoglia utilità sociale, fino al dissolvimento.
L'ultima caratteristica che lega queste trasformazioni è l'attenzione, tipica dell'ideologia liberista, al prodotto piuttosto che al processo e, di conseguenza, al “vincere” a prescindere dai contenuti sostanziali di qualsivoglia presunta vittoria.
Volgendo lo sguardo sul versante dei movimenti, la riflessione che proporrei è quella relativa al loro stato, alle loro possibilità e alle obiettive difficoltà in cui si trovano.
Parto da una premessa: non ritengo reale alcuno scenario che descriva la società come in preda ad una passivizzazione di massa e la definirei piuttosto come un “universo deflagrato delle resistenze”.
Conosco il territorio italiano per avere la fortuna di poterlo girare invitato in moltissimi luoghi e devo dire che non conosco epoca che possa vantare un attivismo reticolare come quella attuale, con migliaia di esperienze concrete in atto e altrettante conflittualità in corso.
Sono tutte esperienze che, anche grazie alla difficoltà di trovare possibilità di contrattazione sociale in una democrazia drasticamente in crisi, hanno giocoforza dovuto affinare le proprie analisi ed elaborazioni: bastino, come esempi, l'affermazione del paradigma dei beni comuni, tutta la riflessione su “pubblico”, “privato” e “comune” e le analisi sulla democrazia partecipativa, affrontate e tematizzate nel nostro Paese e non in altri stati europei, proprio per la profondità della crisi democratica che lo attraversa.
Quello che manca a questo variegato mondo di esperienze e di resistenze è la fiducia nella possibilità di un cambiamento generale, elemento che rischia di precipitare ognuna di esse nell'autoreferenzialità e in una sorta di “mistica del naufrago”, solo al mondo e senza possibilità di interconnessioni.
Sono tutte esperienze dentro le quali si evidenzia una domanda insopprimibile di democrazia, così come un altrettanto insopprimibile domanda di appartenenza; entrambe ci dicono molto delle attuali difficoltà delle esperienze di movimento a trovare forme di connessione e di unità più solide e capaci di farne avanzare gli obiettivi.
Anche perché queste due domande attraversano non solo le formazioni sociali ma gli stessi individui: come se ciascuno di noi, sia interiormente che nella propria dimensione sociale, fosse attraversato da una intensa forza che ci permette di avanzare nella sperimentazione di nuove forme di relazioni sociali e di nuovi laboratori di democrazia e, contemporaneamente, vivesse una fragilità che ci spinge a far prevalere l'appartenenza e la quasi totale identificazione con un tema, una vertenza, un obiettivo (acqua, No Tav, rifiuti etc.).
L'esperienza di questi anni ci dice come, ad oggi, la costruzione di una coalizione sociale ampia è stata possibile solo dentro una battaglia e un movimento di scopo: da questo punto di vista, l'esperienza referendaria del movimento per l'acqua è stata senz'altro quella più significativa, ma, su scala diversa, il medesimo risultato si può osservare in diverse situazioni e vertenze.
Il fatto è che la crisi verticale della rappresentanza produce i suoi effetti anche dentro i movimenti, rendendo difficile qualsiasi percorso che, da uno scopo collettivamente definito, provi a produrre connessioni più ampie: di fronte a questi tentativi, scattano immediatamente domande di democrazia radicale (“chi ha deciso?”) e bisogni di appartenenza (“noi siamo il movimento per l'acqua, che c'entriamo, aldilà della reciproca solidarietà, con il movimento No Tav?”).
Cosa è dunque possibile fare, tenendo conto che il modello neoliberista questi problemi non se li pone e, nella dinamica concreta, agisce un attacco sempre più globale alla società, alla vita delle persone e alla natura stessa?
Credo che, nonostante sia in voga una tendenza alla fretta e all'idea che non ci sia più tempo, senza sottovalutare la drammaticità della situazione, occorra armarsi di una “lenta impazienza”, ovvero dell'impazienza determinata dal verificare quotidianamente l'insopportabilità dello stato di cose presenti, ma anche della consapevolezza della lentezza di un processo di costruzione di alternativa reale.
Occorre senz'altro intraprendere un cammino, ed io credo debba avere due obiettivi: politicizzare il sociale e socializzare la politica.
Cosa significa politicizzare il sociale? Certamente occorre sostenere tutte le buone pratiche che sperimentano forme alternative di stare nell'economia e nella società, riconoscendone il valore politico della costruzione di un'altra antropologia, di un altro modo di vivere.
Ma il fare non è di per sé politicizzato, se nella sua azione non riconosce i nessi necessari, da una parte, a salvaguardare la propria esperienza, dall'altra a permetterne una universalizzazione attraverso il conflitto.
Per fare un esempio certamente banale, ben vengano gli orti urbani, ma è bene che i nostri amici coltivatori alternativi si interessino sia del piano regolatore, per evitare che un terreno liberato oggi divenga un centro commerciale domani, sia di come produrre un cambiamento verso una nuova economia sociale territoriale, per non venire fagocitati come nicchia di sistema.
La politicizzazione del sociale chiede che, nella vertenza dentro la quale ciascuno di noi è impegnato, si riconoscano a fondo i nodi che ne impediscono lo sbocco e li si inserisca come obiettivi di lotta. Non si tratta di un automatico passare dal “particolare” al “generale”, bensì di andare a fondo del particolare, per scoprire quali nodi più generali ne impediscono un'evoluzione positiva.
E' in questo senso che, faticosamente, diventa possibile una prima tappa nell'unificazione dei movimenti e dei conflitti: mantenendo la caratteristica di scopo, senza nessuna generalizzazione astratta, e tuttavia allargando progressivamente lo scopo stesso.
Abbiamo detto che, a fronte della necessità di politicizzare il sociale, occorre affrontare anche la necessità della socializzazione della politica.
Su questo terreno, decisamente più ostico dell'altro, occorre, a mio avviso, avere chiaro un punto di partenza: non ci sono scorciatoie possibili e l'idea che la crisi verticale della rappresentanza si superi entrando, sic et simpliciter, nel circuito della rappresentanza stessa, rischia di produrre delusioni a ripetizione.
Lo stato della democrazia e delle istituzioni che abbiamo descritto all'inizio ci dice chiaramente come, senza una mobilitazione ampia della società, non siano possibili azioni realmente incisive dentro le istituzioni.
Per dirla con poche parole: nelle istituzioni si entra per eccedenza e non per frustrazione, ovvero si entra perché si è prodotta una tale movimentazione sociale, da far divenire l'irruzione nelle istituzioni un passo di naturale rafforzamento delle lotte e un terreno ulteriore di vertenza per la loro radicale democratizzazione.
Se invece si entra per frustrazione, ovvero per ovviare alla percezione sociale di non contare nulla o per la malcelata idea che solo entrando nelle istituzioni (quelle attuali?) si possano produrre mutamenti, allora bisogna prepararsi all'ennesima delusione o alla costruzione di un ulteriore piccolo ceto politico.
Attac Italia ha da tempo identificato la costruzione di una coalizione politica e sociale dei movimenti come l'obiettivo cui dare il proprio massimo contributo. Naturalmente, tutte le riflessioni sin qui fatte indicano come, con che tempi e con quale atteggiamento politico questo obiettivo debba essere praticato, in particolare a livello nazionale.
Sul terreno locale, ci sono invece le condizioni per una sperimentazione più intensa e più incisiva, che possa consentire la costruzione dal basso di una rete di esperienze conflittuali e di pratica dell'alternativa.
Il percorso “Riprendiamoci il Comune”, - da declinare sia nel senso del luogo (città, comuni e territori), sia nel senso del “comune” come percorso di autogoverno dal basso che contrasti ogni privatizzazione e superi in avanti le difficoltà del “pubblico”- sta progressivamente producendo importanti connessioni fra diverse esperienze neo-municipaliste in differenti realtà europee (da Barcellona e decine di città in Spagna, alle esperienze italiane di “Decide Roma” e “Massa Critica” di Napoli, per citare solo le più conosciute).
Sono tutte esperienze che provano a produrre l'auto-organizzazione del “comune” fuori e dentro le istituzioni, a partire da alcuni punti di azione definiti:
a) l'audit del debito e della finanza locale;
b) il bilancio partecipativo;
c) la produzione di una carta dei beni comuni urbani;
d) la riappropriazione di beni comuni e servizi pubblici come istituzioni sociali della comunità territoriale;
d) l'avvio di pratiche per una nuova economia sociale territoriale;
e) l'espansione delle forme di democrazia partecipativa dal basso e di autogoverno sociale.
Embrioni di una democrazia possibile dentro i conflitti metropolitani.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 28 di Marzo-Aprile 2017: "Dov'è finita la democrazia?"
Fonte: Attac
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