di Alfio Nicotra
Per il secondo anno consecutivo "Un ponte per..." in collaborazione con la Società Geografica Italiana ha effettuato un viaggio di conoscenza in Serbia, Kosovo e Metohija alla scoperta di un patrimonio culturale plurisecolare a rischio di estinzione. Fare conoscenza, in quella realtà dei Balcani, non è semplicemente sensibilizzare ad un tema che non trova posto sui nostri mass media, ma anche compiere un atto politico significativo. Non solo per rafforzare e rendere attuale la campagna di sostegni a distanza "Svetlost , luce sui bambini invisibili", con la quale dal conflitto del 1998 ad oggi centinaia di famiglie profughe dal Kosovo hanno potuto mandare a scuola e all'università i loro figli, ma anche per evidenziare il fallimento dell'intervento militare occidentale in questa zona e l'allontanamento di una soluzione politica inclusiva.
Basta parlare con uno qualsiasi dei nostri militari o poliziotti impegnati nelle missioni KFOR, Eulex Kosovo e UNMIK per sapere che la situazione è tutt'altro che pacificata e che basta un niente che la violenza interetnica può riesplodere tragicamente.
Basta parlare con uno qualsiasi dei nostri militari o poliziotti impegnati nelle missioni KFOR, Eulex Kosovo e UNMIK per sapere che la situazione è tutt'altro che pacificata e che basta un niente che la violenza interetnica può riesplodere tragicamente.
Così fa impressione vedere la città di Kosovska Mitrovica divisa e non unita dal ponte sul fiume Ibar, con la parte nord rigorosamente serba (e sede delle istituzioni kosovare riconosciute da Belgrado) e quella sud della popolazione di etnia albanese, con in mezzo, dall'una all'altra parte del fiume, i blindati dei nostri carabinieri. Pochissime sono le bandiere del Kosovo indipendente adottate nel 2008 (il Kosovo con 6 stelle a sfondo blu) e che richiamano visivamente quelle della Ue. Più facile trovare invece quelle della Repubblica di Serbia e quelle della Repubblica di Albania, a delimitare territori, enclave e la stessa cartellonistica stradale. La pulizia etnica passa anche da qui, nonostante il Kosovo abbia scelto il bilinguismo, le due lingue non si mischiano e vengono cancellate.
Come ai tempi della guerra trovi auto cui è stata volutamente tolta la targa per poter viaggiare dall'una all'altra parte del Kosovo senza incorrere in problemi o senza farsi riconoscere. Ogni paese ha il suo monumento ai martiri, ai "missing", con foto spesso di giovanissimi e tutti che insistono sulla stessa data di morte, tra il 1998 e il 2000. Qua e là spunta la statua di qualche eroe e il nemico è di la dal ponte o nel villaggio accanto. L'intervento internazionale – con i bombardamenti su Belgrado partiti dalle nostre basi militari – ha lasciato ferite non ancora rimarginate. Bill Clinton ha una statua nel centro di Pristina mentre in quello di Belgrado è rimasto il segno dei palazzi distrutti dalle bombe Nato.
La situazione sul terreno appare molto diversa dai tempi della guerra ipocritamente definita "umanitaria" da parte delle cancellerie occidentali. Ormai, nei rapporti della KFOR (comandata da un generale italiano, il generale di divisione Giovanni Fungo) non si fa mistero che si sta verificando una pulizia etnica al contrario. Ad essere cacciati dalle loro case sono stati i serbi, insediati in questa area da secoli (il Kosovo e Metohija, termine oggi proibito nel Kosovo monoetnico autoproclamatosi indipendente nel febbraio 2008, è considerata la culla della cultura serba). Chiese ed istituzioni serbe date alle fiamme, cimiteri profanati, monasteri con un monumentale patrimonio storico assediati ed assaliti, testimoniano questo contrappasso della storia. Fa impressione vedere reticolati e filo spinato circondare le mura delle chiese ortodosse ed un dispiegamento di militari armati fuori e dentro l'incantevole monastero di Visoki Decani.
D'altronde basta leggersi la relazione della stessa Deliberazione del Consiglio dei ministri, in merito alla partecipazione dell'Italia alle missioni internazionali adottata il 14 gennaio 2017 e successivamente approvata con condizioni da Camera e Senato per sapere che la situazione è fortemente cambiata. "La Kfor – si legge – si trova infatti ad operare in un'area a forte penetrazione jihadista, dato il numero cospicuo, se rapportato a quello complessivo della popolazione, di 'foreign fighter' kosovari. Le cifre ufficiali ne indicano 328, di cui il 13% sarebbe già deceduto e il 30% si troverebbe all'estero, mentre ne sarebbe rientrato in patria il 42%. Ciò non fa che confermare la percezione del Kosovo come regione tuttora a rischio, anche perché interessata da ingenti flussi migratori provenienti da Iraq e Siria". Cosa questa confermata anche dai dati del Kosovar Centre for Security Studies (KCSS), che vedono il Kosovo e la Bosnia tra i primi due esportatori mondiali di foreign fighters verso Siria ed Iraq rispetto al numero di abitanti.
Tra il 19 e il 22 febbraio scorso i deputati Marietta Tidei (PD) ed Emanuele Scagliusi (M5S) si erano recati in missione a Pristina in occasione della Conferenza della Commissioni esteri dei Parlamenti dell'Unione europea e dei Paesi dei Balcani Occidentali. La missione ha inaugurato per il 2017 la stagione dei rapporti parlamentari bilaterali, contribuendo a preparare, tra l'altro, il terreno per i lavori del Vertice governativo di Trieste, previsto il 12 luglio prossimo, nell'esercizio della presidenza italiana del Processo di Berlino, per il quale si è auspicata la presenza di delegazioni parlamentari con funzione di osservatori.
L'unica pecca è però aver incontrato solo la parte albanese. In quella sede è intervenuto il Presidente della Repubblica del Kosovo Hashim Thaci (ex comandante Uck, detto "il serpente" e accusato nel 2011 di traffico di organi espiantati ai serbi da una relazione del rappresentante del Consiglio d'Europa Dick Marty) che ha enfatizzato l'istituzione della Commissione per la verità e la riconciliazione, prospettando prossimi nuovi riconoscimenti in campo internazionale, ricordando quelli registrati nel 2016 da parte della UEFA e della FIFA.
Prossimi obiettivi saranno l'UNESCO e il Consiglio d'Europa, nel solco della linea di azione coordinata con tutti gli attori internazionali, che ha contraddistinto fin dall'inizio il processo di nascita del Kosovo. Ora però una domanda sorge spontanea: la Repubblica del Kosovo chiede di entrare nell'Unesco in forza di quello stesso enorme patrimonio culturale messo in pericolo dalla pulizia e dalla discriminazione etnica del suo stesso governo? A vedere i militari della NATO, pattugliare con armi ed armati monasteri e chiese, sembrerebbe proprio di si.
Fonte: Huffington Post - blog dell'Autore
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