di Marta Fana e Lorenzo Zamponi
Per la prima volta nella storia della quinta repubblica francese, nessuno dei due partiti che ne dominano la politica da quasi sessant’anni, quello socialista e quello gollista, avrà un suo candidato al ballottaggio delle elezioni presidenziali. E questo per motivi diversi. Da una parte, il 6,4 per cento ottenuto dal socialista Benoît Hamon rappresenta un minimo storico assoluto per il suo partito, con radici evidenti nell’impopolarità delle politiche sociali ed economiche del presidente uscente François Hollande, eletto nel 2012 con un programma progressista e poi gradualmente spostatosi verso il centro, fino alla contestatissima riforma del lavoro del 2016.
Dall’altra, il 20 per cento del candidato di centrodestra François Fillon è un risultato modesto soprattutto visto che partiva favorito grazie ai fallimenti di Hollande: a fare la differenza, con ogni probabilità, sono state le accuse di corruzione emerse contro di lui in campagna elettorale.
Dall’altra, il 20 per cento del candidato di centrodestra François Fillon è un risultato modesto soprattutto visto che partiva favorito grazie ai fallimenti di Hollande: a fare la differenza, con ogni probabilità, sono state le accuse di corruzione emerse contro di lui in campagna elettorale.
Il peso elettorale dei due grandi partiti al primo turno, che cinque anni fa valeva oltre venti milioni di voti, è ora ridotto a poco più di nove milioni: una mozione di sfiducia a un intero sistema politico.
Come leggere i risultati
A incassare i consensi popolari persi da socialisti e gollisti sono stati tre candidati che, seppure in maniera molto diversa l’uno dell’altro, hanno impostato le loro campagne elettorali come sfide populiste all’establishment dei due partiti maggiori: Emmanuel Macron, il banchiere a capo del movimento centrista liberale En marche! – appoggiato esplicitamente da buona parte della leadership socialista, compreso il primo ministro uscente Manuel Valls – ha ottenuto il 24 per cento dei voti ed è ora il favorito per l’Eliseo; la leader del Front national di estrema destra Marine Le Pen ha preso il 21,3 per cento, un milione di voti in più rispetto a cinque anni fa, arrivando al ballottaggio ma senza sfondare; il candidato della sinistra radicale Jean-Luc Mélenchon (19,6 per cento) ha guadagnato più di tre milioni di voti rispetto a cinque anni fa, ottenendo un risultato storico ma rimanendo fuori dal secondo turno.
Per capire i fattori scatenanti di questo terremoto politico possono essere utili i dati raccolti dall’Istituto francese di opinione pubblica (Ifop) il giorno stesso delle elezioni.
Se le differenze tra il voto di donne e uomini sono quasi impercettibili, il dato di classe è invece interessante: Mélenchon è il candidato più votato tra i disoccupati (32 per cento), mentre Marine Le Pen primeggia tra i lavoratori dipendenti (34 per cento) e Macron tra professionisti e quadri (37 per cento).
Il livello di istruzione fa la differenza in negativo per la candidata dell’estrema destra, maggioritaria tra gli elettori privi di un titolo di scuola superiore (31 per cento) e nettamente minoritaria tra i laureati (13 per cento) e gli studenti (8 per cento). È di segno opposto la tendenza per il candidato centrista, il cui consenso elettorale sale proporzionalmente al titolo di studio, mentre Mélenchon pesca in maniera abbastanza omogenea e ha particolarmente successo tra gli studenti (31 per cento).
Il candidato di sinistra, del resto, è il preferito da chi ha meno di 35 anni (26 per cento), mentre fatica, esattamente come Marine Le Pen, tra chi ne ha più di 65, che rappresenta di fatto il vero bacino elettorale del gollista Fillon (39 per cento).
Come si sono distribuiti, fra i tre sfidanti, i voti persi da gollisti e socialisti? L’analisi dei flussi elettorali fornisce una rappresentazione piuttosto chiara.
Un porto sicuro contro i radicali
Tra gli elettori di Nicolas Sarkozy del 2012, ben il 40 per cento ha scelto un candidato diverso da Fillon: a guadagnarne sono stati in particolare Le Pen (14 per cento) e Macron (17 per cento). Una dinamica ancora più accentuata si può vedere a sinistra, con il socialista Benoît Hamon che perde l’84 per cento dei voti di Hollande, andati in gran parte a Macron (48 per cento) e Mélenchon (26 per cento). Al di là delle diverse proporzioni, la tendenza è simile: entrambi i grandi partiti sono stati erosi ai fianchi dai concorrenti più radicali, ma il grosso del loro elettorato si è spostato al centro. Macron, di fatto, è stato un candidato “rifugio”, un porto sicuro in cui ripararsi per gli elettori dei due grandi partiti in crisi, spaventati dai populisti di destra e sinistra.
Il quadro è confermato dalle risposte relative agli elementi considerati più importanti nella scelta del candidato.
Gli elettori di Mélenchon dichiarano di aver deciso sulla base dei temi di politica sociale ed economica più tipici della sinistra: l’aumento dei salari e la difesa del potere d’acquisto (76 per cento), la lotta contro la disoccupazione (71 per cento), quella contro la precarietà (70 per cento), la difesa di sanità (69 per cento) e servizi pubblici (64 per cento).
Marine Le Pen, simmetricamente, è sostenuta da persone che si riconoscono in pieno nella destra più tradizionale stile law and order, e citano come determinanti la lotta contro il terrorismo (93 per cento), quella contro l’immigrazione senza documenti (92 per cento) e quella contro la criminalità (85 per cento).
L’elettorato di Macron è molto meno caratterizzato, e gran parte degli elementi precedenti non sono considerati determinanti da una netta maggioranza di suoi sostenitori. La sua forza, paradossalmente, sta nell’essere percepito come vincente: se infatti il programma politico è considerato la cosa più importante dalla maggioranza dei sostenitori di Mélenchon (80 per cento) e da quelli di Le Pen (86 per cento), per gli elettori di Macron è stata decisiva la sua probabilità di arrivare al secondo turno (78 per cento).
In estrema sintesi, il successo di Macron appare poco caratterizzato sul piano tematico e politico e ben identificato sul piano sociale e culturale. La sua rendita si basa, di fatto, sulla debolezza di Hamon e Fillon, e sull’ampia visibilità garantitagli dai mezzi d’informazione, che ne hanno fatto l’alternativa più a portata di mano per l’elettorato moderato. Per lui hanno votato sostanzialmente le parti meno in difficoltà della società francese, spaventate dall’ascesa dei populisti di destra e di sinistra e, in parte, dalla possibilità che siano messi in discussione determinati interessi, in particolare in campo immobiliare.
Bisogna notare che il paventato crollo della partecipazione elettorale nelle periferie non c’è stato, nonostante i differenti risultati per i diversi candidati: a Seine-Saint-Denis, periferia nord di Parigi, zona ex industriale e oggi luogo simbolo dell’immigrazione e degli scontri tra polizia e cittadini, Mélenchon raggiunge il 34 per cento dei voti.
Un rottamatore soft
Il probabile prossimo presidente francese, quindi, potrebbe non godere di un mandato politico preciso, ma, piuttosto, potrebbe dover interpretare il ruolo di un salvagente, del protettore dall’avanzata di forze politiche in crescita ma ancora minoritarie, di fronte alla perdita di credibilità di gollisti e socialisti.
Un “rottamatore soft”, che promette di farla finita con l’establishment corrotto ma senza grandi rotture politiche. La medaglia, però, ha un’altra faccia: se Macron ha costruito la sua immagine di argine contro i populismi evitando di presentarsi con nettezza in termini politici, per lui sarà particolarmente ardua la prova del governo, quando dovrà misurarsi con scelte politiche che rischiano di scontentare quanto quelle di Hollande, del cui governo, del resto, è stato ministro.
La transizione, quindi, anche nel caso di vittoria di Macron al secondo turno, è tutt’altro che chiusa e il duello tra due proposte nettamente di destra e di sinistra potrebbe essere solo rimandato alle prossime elezioni.
Milioni di francesi hanno chiesto un cambiamento radicale rispetto alle politiche sociali ed economiche portate avanti da Hollande, e la convergenza al centro contro i populismi non può durare in eterno senza misurarsi con la concretezza delle scelte politiche su lavoro, economia e immigrazione.
Solo il tempo dirà se Macron, e ciò che resta di gollisti e socialisti, saranno in grado di riconquistare i due elettorati popolari, quello di Mélenchon, più colto e concentrato sull’economia, e quello di Le Pen, in apparenza meno istruito e preoccupato di terrorismo e immigrazione. La sfida sulla gestione dell’uscita dalla crisi economica è solo rimandata.
Fonte: Internazionale
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