di Alessandro Somma
E così le elezioni francesi sono andate secondo i pronostici: i più votati sono stati Marine Le Pen, rappresentante della destra nazionalista, e Emmanuel Macron, il volto nuovo della politica, europeista e centrista. Il ballottaggio sarà dunque un confronto tra la Francia repubblicana e la Francia xenofoba, con tutti i principali leader politici schierati a favore di Macron, sicuro vincitore. I più hanno accolto questo risultato con entusiasmo. Certo, i francesi hanno rottamato i grandi partiti di massa, i cui candidati hanno tenuto comportamenti immorali (Fillon) o sono stati incapaci di appassionare gli elettori (Hamon). E tuttavia Parigi si smarca dal trend populista inaugurato da Regno Unito e Stati Uniti: si avvierebbe a rappresentare un punto di riferimento per chi vuole riformare e non affossare l’Europa.
Questa lettura è forse tranquillizzante, ma molto lontana dal cogliere i termini dello scontro in atto, così come il quadro delle forze che lo stanno animando, e l’identikit di chi sta avendo la meglio.
Incominciamo con lo scontro in atto, che riguarda forze a ben vedere meno distanti di quanto si usa dire. Le Pen rappresenta la destra nazionalista e xenofoba, che paventa il rischio di una islamizzazione dell’Occidente, e vuole anche per questo chiudere le frontiere. Di qui il suo antieuropeismo, che però non mette in discussione la centralità dei mercati: non si chiede più Stato per limitarli e difendere i dritti dei lavoratori, ma per rafforzare l’economia nazionale nella competizione internazionale.
In altre parole, Le Pen e i suoi epigoni non rappresentano un’alternativa al liberismo, bensì solo una sua rivisitazione in linea con le necessità del momento. Se le frontiere aperte portano ricchezza, allora ci si mostra paladini della globalizzazione, ma se in questo modo il pil ne risente, allora si invocano i confini statali: come fu nei primi decenni del Novecento con il nazionalismo economico. Costante è invece la centralità del mercato come punto di riferimento per l’azione politica, nel nome del quale promuovere la svalutazione e la precarizzazione del lavoro.
Assistiamo insomma a uno scontro tra liberismo sovranista e liberismo globalista, quello che non mette seriamente in discussione questa Europa, e che tutt’al più ricorre a qualche ammortizzatore sociale per meglio imporre la pervasività del mercato. È in fondo questa la sfumatura che caratterizza il programma di Macron, non a caso accostato a Renzi, di cui tutti ricordano le patetiche battaglie per spuntare riforme da zerovirgola.
E assistiamo alla morte della politica e del conflitto sociale. La politica è ridotta a lotta per la selezione delle migliori modalità di attuazione del progetto liberista, oramai indiscutibile e privo di alternative. È insomma tecnocrazia, e questo esclude che il conflitto sociale possa produrre cambiamento, che faccia emergere progetti di società incompatibili con l’ordine dato.
A ben vedere le elezioni francesi ci hanno mostrato che un blocco sociale per il cambiamento esiste, e che rappresenta quasi un quinto dell’elettorato (i voti conquistati da Jean-Luc Mélenchon). È un buon inizio per costruire un’alternativa al liberismo nelle sue varianti nazionalista e globalista, per immaginare un’Europa dei popoli e dei diritti dei lavoratori. Il punto da sciogliere è se l’Unione europea sia riformabile in questo senso, o se occorra a tal fine smontarla: tornando alla sovranità popolare per rafforzare gli Stati nello scontro con i mercati.
Fonte: Micromega-online
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