di Ruggero Giacomini
Antonio Gramsci morì il 27 aprile 1937, dopo essere stato per oltre dieci anni prigioniero del fascismo, sottoposto a torture psicologiche e fisiche e a sofferenze inenarrabili, in mezzo alle quali tuttavia non aveva mai cessato di resistere e di lottare per la libertà e il socialismo. Aveva 46 anni. Il fascismo lo aveva privato della libertà allorché nel novembre 1926, con la complicità del re Savoia, aveva abolito le garanzie dello Statuto sbarazzandosi del Parlamento rappresentativo. Aveva poi cercato sistematicamente, con pressioni e ricatti, false informazioni e provocazioni incessanti, di indurlo a capitolare, a chiedere la grazia, a rompere con le sue idealità e il suo partito. Non ci era riuscito.
Della morte diede burocraticamente la notizia due giorni dopo un breve dispaccio dell’agenzia governativa Stefani: “E’ morto nella clinica privata Quisisana di Roma dove era ricoverato da molto tempo, l’ex deputato comunista Gramsci”. La stessa nota fu trasmessa dalla radio.
Della morte diede burocraticamente la notizia due giorni dopo un breve dispaccio dell’agenzia governativa Stefani: “E’ morto nella clinica privata Quisisana di Roma dove era ricoverato da molto tempo, l’ex deputato comunista Gramsci”. La stessa nota fu trasmessa dalla radio.
Il nome di Gramsci prima e dopo la Liberazione
Per oltre un quindicennio Gramsci in Italia era stato cancellato dall’informazione, si era cercato di farne scomparire la memoria. I giovani ne ignoravano l’esistenza, il ricordo sopravviveva nelle carceri e nelle isole di confino, tra gruppi di comunisti e antifascisti in clandestinità, nei lavoratori più anziani. All’estero la sua opera era invece viva nell’emigrazione italiana, dove fu commemorato e rimpianto dai comunisti italiani e dall’Internazionale, ricordato con rispetto e onorato dai principali esponenti e giornali dell’antifascismo.
Nella lotta partigiana al nome di Gramsci si intitolarono brigate e distaccamenti d’assalto e dopo la guerra per l'esempio politico e morale che aveva dato divenne punto di riferimento per quella grande parte degli italiani che anelava a un profondo rinnovamento.
Ripresero ad essere pubblicati articoli suoi del periodo in cui era stato attivo politicamente e si cominciarono a conoscere, grazie all’impegno di Togliatti, gli scritti carcerari. Il “ritorno” di Gramsci accompagnò l’azione per affermare il ruolo di classe e nazionale del Partito comunista italiano ed amalgamare nel "partito nuovo", costruito come forza politica omogenea, combattiva e di massa, l’afflusso di militanti reduci da esperienze molto diverse: la clandestinità, il carcere e il confino; l’esilio e la lunga lontananza dal paese; la chiusura nel privato durante gli anni bui; l’esperienza partigiana vissuta da molti giovani spinti da un sano impulso di giustizia, ma che poco o nulla sapevano del marxismo, del comunismo e della vicenda politica prima del fascismo.
Ma Gramsci non fu solo riscoperta di radici. La sua figura e il suo pensiero si imposero come presenza culturale forte nella realtà nazionale, a partire dalle Lettere dal carcere, giudicate già al loro primo apparire nel 1947 un capolavoro di letteratura, cui fu infatti conferito il premio Viareggio. Seguirono i Quaderni del carcere, una vera scoperta per la loro ricchezza e profondità, pubblicati in volumi tematici antologici a partire dal 1948 e più volte riediti.
L’eredità contesa
Fin dall'inizio attorno alla figura e all’opera di Gramsci si aprì una complessa contesa politico-culturale, alla cui base era il fatto che gli avversari del Partito comunista trovavano improponibile e improduttivo un attacco frontale al principale resistente e vittima della lotta al fascismo. Per cui, mentre si sviluppava con diversità di approcci e interpretazioni un proficuo confronto utile alla conoscenza e alla ricerca, nascevano contemporaneamente operazioni rivolte a neutralizzarne e contrastarne l’eredità.
Gramsci è stato un rivoluzionario, il più grande del Novecento in Italia e tra i maggiori nel mondo. Aveva acquistato precocemente da Lenin la consapevolezza che la lotta della classe operaia non avrebbe potuto avere speranze di successo senza la costruzione e la guida di un partito rivoluzionario, il partito comunista. A questo compito prioritario egli aveva dedicato la sua vita, prima e dopo l’arresto. Certo Gramsci può essere apprezzato e compreso anche da chi non è marxista, non è comunista. Altra cosa sono però le distorsioni interessate, le ipocrisie, le amputazioni delle sue idealità e della sua militanza.
E questo proprio è stato il punto su cui si sono accaniti e si esercitano nei più svariati modi gli avversari, per affogare in un nulla indistinto la sua opera. Si tratta di un attacco sotto le forme dell’elogio, che ha seguito e segue principalmente due direzioni.
La prima, dei “filosofi”, è quella della "monumentalizzazione" del pensiero, a cui si sono in parte votate anche istituzioni un tempo benemerite e che al suo nome pure si richiamano, ossia presentarlo come una figura venerabile di pensatore fuori del tempo e dello spazio, a cui si possano riferire indifferentemente politici di destra e di sinistra.
La seconda, degli “storici”, lavora specialmente su aspetti della biografia, non esitando a ricorrere a smaccate falsificazioni, per staccare Gramsci dal partito comunista. Così lo si presenta come un tardo pentito del comunismo, di volta in volta liberale e liberista, cattolico e socialista craxiano, adepto di “Giustizia e Libertà” e del partito d’Azione. E contemporaneamente si vuole che sia stato tradito dal suo partito, da Togliatti soprattutto, ma poi anche da Grieco e anche da Longo, mossi a seconda dell’immaginazione di chi scrive dall’ordine di Stalin o da malvagità propria.
In questo ambito frequentato da una sterminata pubblicistica, il fascismo e Mussolini scompaiono come carnefici e carcerieri, elevati a “”protettori” e “benefattori”. Si tace sul trattamento disumano della tortura fisica e morale, si utilizzano sospetti di Gramsci senza domandarsi l’origine degli stessi. Si santifica la figura di un giudice istruttore militare al servizio del Tribunale speciale, che era in realtà una losca figura di provocatore e pedina interessata del regime. Perfino gli interrogativi sulla morte, che non fu molto probabilmente naturale, vengono rovesciati nei mandanti e negli autori, fantasticando sull’irruzione in clinica di un gruppo terroristico venuto dall’oriente. Su tutto questo mi permetto di rinviare al mio Il giudice e il prigioniero, Castelvecchi, 2014.
Una sospetta coincidenza
Gramsci fu colpito da un “ictus” la sera del 25 aprile 1937, cioè lo stesso giorno in cui il tribunale aveva certificato la sua fine pena e tornava in libertà.
Conosciamo lo svolgimento della giornata grazie a una relazione della cognata Tania Schucht. Lei la mattina si era recata presso gli uffici del tribunale di Roma e aveva ritirato il libretto del giudice di sorveglianza con la dichiarazione che il periodo della libertà condizionale era terminato. Di conseguenza le misure di sicurezza, che nei confronti di Gramsci non erano mai cessate, avrebbero dovuto avere termine, egli era libero. Dal 1934 Gramsci si trovava nello status giuridico della “libertà condizionale”, ma in realtà per disposizione diretta di Mussolini era continuato su di lui il più stretto controllo, sorvegliato notte e giorno dalla polizia e tenuto prigioniero. Il suo proposito di ricoverarsi per la cura dell’esaurimento in una clinica per malattie nervose aperta a Fiesole aveva incontrato il nein di Mussolini. E alla clinica “Quisisana” a Roma una squadra di poliziotti si avvicendava all’ingresso, mentre agenti in incognito si celavano in mezzo al personale.
Quando Tania verso le 12,30 arrivò in clinica con il documento di fine pena, Gramsci stava bene, aveva mangiato e poi Lei se ne era andata per lasciarlo riposare. Era tornata verso le 17,30, avevano discusso delle novità del giorno, poi avevano cercato delle parole sul dizionario “Larousse”, perché lei stava preparando una lezione privata di francese:
“Poi – è il racconto di Tania – abbiamo conversato fino all’ora di cena. Alla mia proposta di portare il libretto a fare vedere giù, o chiamare il commissario, mi disse che non c’era fretta, che l’avrei potuto fare un altro giorno. Ha cenato, come al solito; ha mangiato la minestrina in brodo, un po’ di frutta cotta ed un pezzetto di pan di Spagna. E’ uscito, e fu riportato sopra una sedia portata da più persone”.
Il drammatico colpo avvenne dunque dopo cena, mentre si trovava in bagno. Qui improvvisamente si era sentito venir meno, era caduto per terra accasciandosi senza battere la testa. Con grande sforzo si era trascinato sino alla porta e aveva chiesto aiuto. Aveva perduto il controllo del lato sinistro, ma, ricorda Tania, “parlava benissimo”. Era stato chiamato un medico tra quelli che si trovavano in clinica, il quale, raccontò ancora la cognata,
“non ha permesso fare alcuna iniezione eccitante dicendo che questa non poteva che peggiorare le condizioni, mentre Nino con molto impeto chiedeva l’iniezione, voleva un cordiale, anzi diceva di fare la dose doppia, in una parola Nino era perfettamente in sé, con ogni sorta di particolari raccontò anche al dottore ciò che gli era accaduto.”
Antonio (Nino) era dunque pienamente cosciente, sottolinea la cognata. E chiedeva con insistenza iniezioni e bevande eccitanti. Ciò fa capire come egli sospettasse che gli avessero fatto ingerire delle sostanze velenose e cercasse di neutralizzarle.
Verso le ore 21 di quella stessa sera arrivò con un suo assistente il direttore della clinica professor Vittorio Puccinelli, che disse di essere stato trattenuto da un’operazione d’urgenza. Gramsci aveva raccontato anche a lui quanto gli era successo. Il medico aveva ordinato il ghiaccio in testa, un clistere di sale e il salasso, che però gli furono praticati con colpevole ritardo, “dopo un’ora e più”, nel frattempo aveva vomitato più volte e le condizioni erano peggiorate.
Erano allora accorse le suore dell’ospedale ed era arrivato il prete, che alle veementi proteste di Tania perché lasciassero l’infermo tranquillo, aveva risposto “che non potevo comandare”,si sentiva probabilmente come il cappellano di un carcere mandato ad assistere un condannato a morte. Al mattino seguente era venuto per una visita il prof. Cesare Frugoni, chiamato da Tania, che aveva ordinato di mettere delle sanguisughe sulle mastoidi e di fare certe iniezioni. Ma lo stesso Frugoni disperava dell’esito, il disastro ormai era avvenuto. Ci fu infatti un leggero miglioramento del respiro nel pomeriggio, ma poi le condizioni si aggravarono, e alle 4,10 del 27 aprile Gramsci cessò di vivere.
Prigioniero anche da morto
Quando il fratello Carlo, che nel frattempo era stato avvertito per telegrafo, arrivò in clinica, il corpo di Antonio era già in camera mortuaria e l’ingresso sorvegliato e impedito dalla polizia. Nel frattempo Tania aveva telefonato a un suo amico perché accompagnasse il formista a prendere la maschera del viso, e la polizia aveva voluto da entrambi “un sacco di dichiarazioni scritte”, sui rapporti con la stessa Tania, “ecc. ecc.”. La prigionia di Gramsci continuava severa anche da morto. E’ ancora Tania a riferire:
“Poi venne il fotografo, ed anche lui ebbe la sua parte di interrogatori. E quando nel pomeriggio tornò il fratello Carlo e si diresse diritto verso la camera mortuaria e volle aprirne la porta fu fermato, e quando declinò le sue generalità, il divieto gli fu confermato dicendogli che tale era l’ordine del Ministero: che nessuno doveva vedere la salma”.
Carlo diede in escandescenze, e il commissario, non spiegandosi probabilmente neanche lui del tutto il provvedimento, gli consentì di passare, a lui e a Tania, sempre però “circondati da una folla di agenti e di funzionari del Ministero degli Interni”. La forza pubblica era stata pure “sempre presente in gran numero”, tanto all’accompagnamento al cimitero, quanto durante la cremazione. L’ordine del Ministero di non far vedere il cadavere e lo stretto controllo fino alla cremazione sono spia di una coscienza poco limpida sull’origine del decesso, su cui non era permesso di interrogarsi e di indagare.
Fu merito di Tania aver mantenuto lucidità in quei drammatici frangenti ed essere riuscita approfittando della confusione a raccogliere e portare fuori della clinica gli effetti personali di Gramsci e con essi i preziosi quaderni, che mise subito al sicuro all’ambasciata sovietica dove lavorava.
Excusatio non petita
Due settimane dopo la morte di Gramsci, "Il Messaggero" vi tornava con un trafiletto velenoso in prima pagina, che Tania giudicò “una vera indecenza” e a cui si rispose da Parigi con una campagna di lettere di protesta sdegnate al giornale romano. L’articolo pubblicato anonimo era dello stesso Mussolini, e Gramsci vi era annoverato tra “ i più folli, fanatici comunisti”, come colui che “non era davvero secondo a nessuno”.
Basterebbe questa certificazione di Mussolini, che era poi la confessione del fallimento di tutti gli sforzi per indurlo a capitolare, per liquidare come cialtronesche tutte le fantasiose tesi sulle pretese intervenute conversioni, fino a quella di tal Lo Piparo da certificarsi con un fantomatico quaderno “scomparso”, ritrovabile sempre che qualche falsario vi si voglia cimentare.
Ma nello scritto di Mussolini c’erano anche una provocazione e un depistaggio. Gramsci era detto seguace di Trockij fuggito a tempo dalla Russia e riparato in Italia, dove aveva potuto “terminare i suoi giorni in una soleggiata clinica di Roma”, trovando “quella pace che altrove è negata persino al limite della morte.”
Premeva a Mussolini sottolineare col riferimento ai processi di Mosca che Gramsci era morto di morte naturale e rispondere così ai sospetti che comprendeva non potessero non circolare.
La tesi della morte naturale non aveva convinto però lo storico Piero Melograni, approdato dopo un pellegrinaggio per molte chiese politiche sulla sponda del berlusconismo. Vero è che egli oscillava fantasiosamente tra il suicidio e un commando staliniano, ma perché non teneva conto che Gramsci nella clinica Quisisana era sorvegliato notte e giorno dalla polizia fascista e che solo i fascisti potevano liberamente avvicinarlo e assassinarlo. In una lettera a Giulia del 6 marzo 1937, poche settimane prima della tragedia, Tania scriveva in proposito:
“E’ necessario che la polizia ci dia l’autorizzazione per ogni passo che facciamo. Ora di Antonio si occupa un’intera squadra di agenti, nonostante per tutto il tempo del suo soggiorno qui non sia uscito una volta neanche per andare in giardino, [e] le sue condizioni di salute siano note a tutti.”
Dalla stessa lettera si apprende anche la trascuratezza del servizio sanitario in clinica verso di lui e la noncuranza degli stessi medici, in una struttura che pure era una delle più rinomate e costose della capitale. Come se si sapesse che a occuparsi di quel particolare paziente ci si potesse compromettere:
“Le condizioni della clinica, quanto a struttura, trattamenti, pasti – scriveva Tania -, lasciano molto a desiderare. E sotto il profilo medico non soltanto non abbiamo un buon dottore o dottori, ma in generale non abbiamo nessun dottore… Formalmente [il prof. Puccinelli] è il medico curante di Antonio, in realtà durante tutta la permanenza di Antonio in clinica è passato nella sua stanza non più di cinque, sei volte, e solo per informarsi come stava.”
Da notare che il medico della clinica Vittorio Puccinelli era fratello del medico personale di Mussolini, e che già nei mesi successivi all’arresto di Gramsci era intervenuto su Tania, conosciuta per i suoi studi incompiuti di medicina, caldeggiando su “esplicite istruzioni” la domanda di grazia. Un uomo cioè anche lui organico al regime. Noterà poi Togliatti che i medici si erano comportati verso Gramsci
“come se avessero ricevuto la direttiva di lasciarlo morire, puramente e semplicemente. E una tale direttiva essi avevano senza dubbio ricevuto perché negli ultimi mesi, mentre le sue condizioni si facevano di più in più gravi, egli non fu sottoposto a nessuna visita, a nessuna cura, a nessuno dei trattamenti di cui aveva bisogno.”
Il sospetto dei familiari e dei compagni
Che Gramsci sia stato “aiutato” a morire era precisa opinione dei familiari. La cognata Tania, che gli era stata vicina anche negli ultimi istanti, ne era convinta, e lo ha ricordato la nipote Olga, figlia di Giuliano Gramsci:
“Mia zia Tania non credeva molto alla versione ufficiale della morte che parlava di un’emorragia cerebrale mentre riteneva più credibile la voce di un avvelenamento”.
Anche Margarita Zacharova, prima moglie divorziata di Giuliano Gramsci, raggiunta in Svezia da Giancarlo Lehner a caccia di scoop, gli ha confermato che “in famiglia” si sosteneva che fosse stato "avvelenato".
Di fatto provocare un’emorragia cerebrale nelle condizioni in cui era Gramsci non doveva essere difficile. Sarebbe bastato semplicemente sostituire una medicina abituale con una sostanza capace di innalzare subitaneamente la pressione arteriosa. La polizia segreta aveva il libero movimento nella clinica e ne aveva tutte le possibilità. Qualcosa del genere sarebbe avvenuto alcuni anni dopo nelle carceri della repubblica per lasciare celate inconfessabili relazioni con il luogotenente del bandito Giuliano, Gaspare Pisciotta.
Il dottor Raoul Bellok, uno dei medici della clinica “Quisisana”, ricordò dopo la guerra:
“Gramsci era sottoposto ad una sorveglianza ristrettissima da parte della polizia. Dodici poliziotti erano distribuiti nel giardino della Clinica, nella Clinica stessa e fuori la sua camera. Un giorno anche le suore protestarono vivamente per quella spietata sorveglianza che rappresentava un vero incubo per tutti noi”.
La sorveglianza più insidiosa e maggiormente pericolosa era però probabilmente quella meno visibile e documentabile all’interno. Togliatti già nel primo scritto in commemorazione di Gramsci sollevò l’interrogativo inquietante:
“La morte di lui rimane avvolta in un’ombra che la rende inspiegabile. Alla lunga catena delle torture è stato aggiunto un ultimo innominabile misfatto? Chi conosce Mussolini e il fascismo, sa che avanzare questa ipotesi è legittimo. La sorte di Gramsci rimane inspiegabile, soprattutto per il momento in cui è avvenuta, quando la sua pena, ridotta per diverse misure generali di amnistia e di indulto, spirava ed egli aveva il diritto di essere libero, di chiamare presso di sé amici e medici di fiducia, di iniziare una cura, di essere assistito.”
A un anno dalla morte, Giovanni Parodi, il compagno operaio torinese che aveva diretto l’occupazione della Fiat nel 1920, non aveva dubbi: Gramsci, che aveva resistito strenuamente alle angherie inflittegli per anni in carcere dall’Ovra, “dovette soccombere – sei giorni dopo la data in cui doveva essere liberato – all’ultima ma efficace pozione”. Parodi credeva che Gramsci avesse potuto godersi sei giorni almeno di libertà, mentre in realtà come abbiamo visto non gli fu concessa neanche un’ora, nemmeno da morto.
E’ anche rivelatore, nella sua succinta crudezza, un telegramma che la mattina del 26 aprile, alle ore 10,45, il questore di Roma Palma spedì alla prima sezione della Direzione generale affari generali e riservati della PS, in cui parlando erroneamente di “attacco cardiaco”, informava tuttavia come sicuro del fatto suo: “Prevedesi decesso”.
Se fosse stato un normale ictus, l’esito a quel momento non si poteva prevedere, perché anche privato della facoltà di movimento di una parte del corpo, il paziente avrebbe potuto ugualmente sopravvivere.
La pistola fumante
Certo un lettore pignolo può sempre dire che manca la prova della pistola fumante, ovverosia l’ordine scritto di Mussolini che comandava il delitto. Ma un ordine del genere non esiste neppure nel caso dei fratelli Rosselli o di Giacomo Matteotti. “Queste sono cose – disse una volta Mussolini al segretario che lo annotò – che si fanno a voce”. E Ciano in una nota di Diario sugli antifascisti italiani catturati in Spagna, anarchici e comunisti: “Lo dico al Duce che mi ordina di farli fucilare tutti, ed aggiunge: i morti non raccontano la storia.”
“Nessuno saprà mai le nostre sofferenze”, aveva detto Gramsci al fratello Gennaro che era andato a trovarlo nel carcere di Turi. E infatti gli fu impedito di poterle raccontare.
Fu quasi certamente la liberazione condizionale accordata giuridicamente da Mussolini a Gramsci per ragioni di immagine internazionale, generalmente considerata come una misura umanitaria a favore del capo del Pci, a farne decretare la condanna a morte. Il regime infatti non intendeva a nessun patto correre il rischio di averlo libero.
Così fu del resto per altri massimi dirigenti comunisti. Basti citare in proposito il caso di Umberto Terracini. Processato insieme a Gramsci e condannato a una lunga pena detentiva, finì di scontarla il 19 febbraio 1937. Avrebbe dovuto essere liberato, ma fu trattenuto in carcere per disposizione ministeriale, fino a che il successivo 5 aprile con ordinanza della Commissione provinciale gli furono affibbiati 5 anni di confino. Quando poi ebbe finito di scontarli, il 19 febbraio 1942, fu condannato nuovamente ad altri cinque. E di cinque in cinque sarebbe certamente morto prigioniero, se il fascismo non fosse caduto.
Per Gramsci la liberazione condizionale escludeva alla scadenza che potesse essergli comminato un nuovo provvedimento restrittivo. Il fascismo risolse la difficoltà alla sua maniera.
Fonte: Marx21.it
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