La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 25 aprile 2017

La violenza è il delirio del mondo

di Raniero La Valle 
C’è una domanda che papa Francesco si è posto nel messaggio per la Giornata mondiale della pace di quest’anno, scrivendo: “Non è facile sapere se il mondo attualmente sia più o meno violento di quanto lo fosse ieri né se i moderni mezzi di comunicazione ci rendano più consapevoli della violenza o più assuefatti ad essa”. Io proverei a rispondere a questa difficile domanda. Come ieri, la violenza sembra organica al mondo. Si direbbe che il mondo non sappia fare altro, e anzi che la violenza sia diventata maggiore. La bomba gettata da Trump sull’Afghanistan è maggiore di tutte le altre bombe, di poco inferiore all’atomica; l’«Armada» navale mandata contro la Corea del Nord è di una forza senza pari; la violenza dei terroristi dello Stato che si dice islamico è maggiore, spesso più efferata della violenza finora usata da altri terroristi o giustizieri. 
Però c’è qualche segno di una caduta di livello, di una perdita di credibilità, di una diminuita potenza e sovranità della violenza. Una violenza che grida, che fa molto chiasso, che dà di matto, è meno efficace di una violenza che agisce, che è esercitata con fredda razionalità. E la gente se ne inquieta di più, perché capisce che quanto più è inconsapevole, tanto più è pericolosa.
Pertanto io credo che la violenza oggi mostri più apertamente la sua alienazione, la sua inevitabile demenza, la sua estraneità a un progetto che sia umano. Perciò per quanto possa apparire ancora organica al mondo e allo spirito del mondo, essa sembra abitare nell’organismo del mondo più come un delirio che come una decisione, più come un’anomalia che come una regola, più come un oggetto di rigetto che come un destino. 
Perciò a me pare che da un lato oggi la violenza sia più pericolosa, perché i diversi focolai della guerra mondiale a pezzi già da tre anni diagnosticata dal papa potrebbero fondersi in un unico grande incendio, ma dall’altro la violenza sia più debole, meno connaturale al mondo, meno utile agli stessi progetti di dominio, più stigmatizzata dall’opinione pubblica, se non altro per l’effetto di potenti anticorpi suscitati nel consorzio umano dalle violenze perpetrate fin qui. Anzi ho la forte percezione che la nonviolenza abbia gettato i suoi semi nel mondo e abbia operato nel cuore del Novecento più di quanto non sia stato fin qui riconosciuto. Mi sembra infatti che la generazione di Gandhi, di don Milani, di don Tonino Bello, di papa Giovanni, dei movimenti per la pace non sia passata invano.

La nonviolenza all’opera
Vogliamo ricordare qualche esempio di questa non violenza all’opera? Pensiamo alla fine dei blocchi. Che cosa è stata se non il frutto della nonviolenza penetrata nella cultura del Novecento la fine incruenta dei blocchi ad opera della parte considerata più violenta di essi, ossia del comunismo fattosi Stato in Unione Sovietica? Si dirà che ciò è avvenuto perché il comunismo si è riconosciuto più debole, è stato sconfitto. Ma se fosse stato solo sconfitto la sua sarebbe stata solo una capitolazione, una resa, e a vincere sarebbero stati solo le armi e i dollari. Invece così non è stato. Invece era avvenuto qualcosa nel pensiero, tanto è vero che con Gorbaciov si è parlato di un “nuovo pensiero politico”; ed era avvenuto un dialogo tra i punti più alti delle due culture: basti ricordare i colloqui lapiriani di Firenze, e i colloqui della Paulus Gesellschaft, con l’apporto della stessa Santa Sede, sulle due antropologie, la cristiana e la marxista. E nell’incredulità dei più il comunismo, magari da noi ribattezzato come eurocomunismo, era diventato pacifico. La fine dei blocchi venne pertanto grazie all’azione riformatrice di Gorbaciov, venne con la dichiarazione di Nuova Delhi del 1987, in cui Gorbaciov e Rajiv Gandhi proposero, inascoltati dall’Occidente, di costruire “un mondo senza armi nucleari e non violento”, venne infine con l’ordine di Mosca ai comunisti tedeschi pressati dai berlinesi: aprite il muro, fateli passare. Furono smentiti così quelli che consideravano il comunismo il male assoluto, e in base a questa idea si comportavano in tutte le loro scelte umane e politiche; i veri sconfitti sono stati loro, anche se hanno vinto, e con la loro povera cultura hanno interpretato la fine del comunismo semplicemente come la resa del nemico. Ricordo quando il ministro degli esteri di allora, il socialista De Michelis, venne tutto giulivo alla Camera a dire: sapete, la guerra fredda è finita e noi l’abbiamo vinta.
Invece quegli eventi avevano dimostrato che la violenza non era organica al mondo, che la nonviolenza era possibile.
Poi di questo si è fatto pessimo uso, perché la cultura dei vincitori ha determinato il nuovo assetto del mondo, creando un mondo peggiore di prima. Essi hanno fatto del denaro il sovrano del mondo, hanno ripreso l’uso della guerra, hanno fatto guerre di ogni tipo per deporre e uccidere despoti sgraditi, come Saddam Hussein, Milosevic e Gheddafi, per far tornare l’Iraq all’età della pietra, come graziosamente si espresse la signora Thatcher, guerre per il Kuwait e per il Kosovo, contro i talebani e contro il terrorismo. Però si diceva che quelle guerre si facevano controvoglia, o per ragioni umanitarie, perché era d’obbligo il linguaggio politicamente corretto, che è un linguaggio in cui la violenza è ufficialmente stigmatizzata, anche se copre quella effettivamente inflitta.
Ma ci sono altri sintomi di crisi delle ragioni della violenza. Il più vistoso è che si è creata una sorprendete asimmetria di fronte al dilagare della violenza intitolata all’estremismo islamista, del cosiddetto Stato islamico. Poteva esserci una guerra di religione e non c’è stata. E non c’è stata perché per farla bisogna essere in due. L’Occidente la farebbe volentieri, come l’ha sempre fatta anche se mascherata in molteplici modi, ma questa volta non la può fare. Il cristianesimo non ci sta. La violenza di Trump è più scatenata di quella di altri presidenti americani, ma è senza un retroterra ed è incurante della logica, non è fondata su una pretesa etica, non ha alibi religiosi, è sprovvista di una motivazione razionale. È una violenza che in un certo senso precede il cogito cartesiano, è violenza e basta. È più pericolosa, ma sempre più come estranea al mondo normale. Perfino la flotta, se Trump le dice di andare verso la Corea, non gli dà retta, se ne va verso l’Australia La violenza perde prestigio, si mostra sempre più come la malattia, non come la soluzione.

La Chiesa ha adottato la nonviolenza
Naturalmente di questo si può discutere. Però di sicuro è successa una cosa imprevista, una cosa straordinaria. La Chiesa cattolica ha adottato la nonviolenza. Essa non le è più estranea, non è una cosa “altra” rispetto al Dio che essa annunzia, ed anzi la nonviolenza oggi appare organica alla Chiesa, ed organica alla figura di Dio quale oggi è mostrata e predicata dalla Chiesa. 
Si dirà che questa è una novità comparsa con papa Francesco, e finirà con lui. Ma non c’è papa senza Chiesa, e la cosa non è cominciata con lui, è cominciata con Gesù. È lui che ha mostrato un Dio in cui non c’è violenza, ed è stato lui che ha dato luogo a una Chiesa dotata di uno spirito di pace e non di afflizione (Ger. 29, 11), opposto allo spirito del mondo.
Tuttavia non c’è dubbio che la drammatica attualizzazione di questo messaggio evangelico si deve al magistero pastorale di papa Francesco.
Il più alto precedente di questa opzione di non violenza nella recente vita ecclesiale è la “Pacem in terris” di Giovanni XXIII, e la sua ricezione nel Concilio Vaticano II. Però quello più che un precedente è stato un inizio. Francesco, il Concilio e papa Giovanni fanno infatti tutt’uno, non sono diversi eventi lontani uno dall’altro, ma un unico evento; basti ricordare che l’anno della misericordia è stato indetto da Francesco per l’8 dicembre 2015, nello stesso giorno, dopo 50 anni, in cui era finito il Concilio, quasi a riprenderlo e continuarlo. La novità sta nel fatto che Francesco ha ripreso l’“aggiornamento” pastorale avviato dal Concilio, ma vi ha aggiunto un decisivo “aggiornamento” teologico. Come aveva detto Karl Rahner del Concilio,non cambia solo l’annunciatore, cambia l’annuncio.

Come è cambiato l’annuncio
Prima di tutto è cambiata la presentazione del volto di Dio. Nella percezione umana, fin dai tempi più antichi, come ha documentato Rudolf Otto nella sua ricerca su “Il sacro”, il volto di Dio è stato nello stesso tempo terribilis et fascinans, affascinante e terribile, quello di un re “tremendae maiestatis”, come canta il “Dies irae”. Quello presentato oggi dalla Chiesa di papa Francesco è invece un “misericordiae vultus”, un volto di misericordia, come dicono le prime parole della bolla di indizione del Giubileo straordinario. Di chi è questo volto? Questo volto è il volto del Padre; esso si rende visibile in Gesù ma è il volto della misericordia del Padre. A noi, nella nostra tradizione di fede, è familiare la misericordia del Signore Gesù, il Vangelo non fa che raccontarla; papa Francesco l’ha ricapitolata nel suo messaggio per il 1 gennaio scorso sulla nonviolenza, ricordando che Gesù ha insegnato ad amare i nemici, a porgere l’altra guancia, ha impedito che venisse lapidata l’adultera, ha fatto rimettere a Pietro la spada nel fodero, nell’orto degli ulivi, e ha tracciata “la via della nonviolenza, che ha percorso fino alla fine, fino alla croce”. Eravamo meno abituati invece all’idea della misericordia del Padre, troppo spesso sovrastata dall’idea della giustizia e della punizione, né eravamo abituati a pensare che sulla croce fosse salito il Padre, non solo il Figlio. Ma nella predicazione di papa Francesco in Dio non c’è che misericordia, Dio perdona sempre, è sempre primo nell’amore; né in lui c’è ombra di violenza, e c’è il dolore di Dio. Egli per amore dell’uomo si fa scacciare dal mondo e sale sulla croce col Figlio. Ad Auschwitz quando, secondo il racconto di Elia Wiesel, degli ebrei riconobbero in tre ragazzi impiccati Dio stesso che pendeva dalla forca, non potevano riconoscervi Cristo, il Figlio, perché erano ebrei, ma vi riconobbero il Dio stesso della creazione, dell’alleanza. Dunque è lui sulla forca, e lui è crocefisso col Figlio. C’è un documento del 2013 della Commissione Teologica Internazionale sul monoteismo e la violenza, in cui si riconosce e si afferma la radicale separazione del cristianesimo da ogni visione che implichi una violenza di Dio; e in ciò si vede l’inizio di un tempo nuovo. Ebbene in questo documento si dice che la supposta violenza di Dio è stata definitivamente smentita e rovesciata sulla croce. Non ci può essere una violenza di Dio se il Dio è quello che è salito sulla croce. Infatti sulla croce non è salito un uomo qualunque, dicono i teologi del Papa citando il secondo concilio di Costantinopoli, ma "Unus de Trinitate passus est". Uno della Trinità stava li sulla croce, non era solo l’uomo Gesù, era il Dio della Trinità che stava sulla croce. 
In secondo luogo è cambiata la percezione del volto della donna e dell’uomo.
Nell’attuale coscienza ecclesiale il peccato originale non è alzare la mano verso il frutto dell’albero della conoscenza, come se ciò fosse alzare la mano contro Dio, ma è alzare la mano contro il fratello. Nel mausoleo di Yad Vashem a Gerusalemme, papa Francesco ha evocato come il vero peccatore delle origini non Adamo ma Caino, ed è a lui che ha immaginato si rivolgessero le parole di dolore di Dio nel giardino: “Dove sei, uomo? Dove sei finito? In questo luogo, memoriale della Shoah, sentiamo risuonare questa domanda di Dio: 'Adamo, dove sei?'. In questa domanda - ha proseguito il papa - c’è tutto il dolore del Padre che ha perso il figlio. Il Padre conosceva il rischio della libertà; sapeva che il figlio avrebbe potuto perdersi ma forse nemmeno il Padre poteva immaginare una tale caduta, un tale abisso! Quel grido: 'Dove sei?', qui, di fronte alla tragedia incommensurabile dell’Olocausto, risuona come una voce che si perde in un abisso senza fondo…” Così il papa a Gerusalemme. Per completare questa cognizione della misericordia del Padre, peraltro, bisogna ricordare che Dio non ha distrutto Caino, ma ha posto un sigillo sulla sua fronte, una specie di salvacondotto divino, dicendo: “Nessuno uccida Caino”. 
Per questo abbiamo detto che una guerra religiosa oggi non si può fare. Perché in Dio non c’è violenza, “il Dio della guerra non esiste”, come ha detto il papa commentando il vangelo a Santa Marta, e il cristianesimo prende definitivo congedo dal Dio violento. Infatti, come dice il documento già citato dei teologi del papa riuniti nella commissione internazionale, il Dio violento, foriero delle guerre di religione, è il frutto di un fraintendimento della fede, e l’eccitazione alla violenza in nome di Dio è “la massima corruzione della religione”, Perciò il papa ha detto al terzo incontro mondiale dei movimenti popolari e poi ha ribadito con forza nel messaggio per la giornata della pace del 1 gennaio scorso: “Nessuna religione è terrorista, La violenza è una profanazione del nome di Dio. Non stanchiamoci mai di ripeterlo. “Mai il nome di Dio può giustificare la violenza. Solo la pace è santa, non la guerra!” Nello stesso messaggio il papa ha fondato la nonviolenza sulla dignità immensa della persona, che deriva dall’essere immagine e somiglianza di Dio; dunque la scelta nonviolenta non è solo una scelta ideologica o politica, il suo valore è antropologico, entra nella definizione dell’uomo. 
A questo punto possiamo dire che alla domanda iniziale, se oggi il mondo sia più o meno violento di ieri, si può dare una risposta in positivo e piena di speranza; però una spes contra spem, se ogni momento siamo richiamati allo spettacolo della violenza. 
In effetti c’è ancora un grande cammino da fare. E perché possa essere fatto occorre una revisione critica del passato, un pentimento dei peccati, degli errori e delle violenze del passato, portando avanti quel processo di purificazione della memoria che il papa Giovanni Paolo II aveva messo al centro dell’Anno santo del 2000. Ma oggi siamo andati più avanti. Infatti abbiamo capito che questa purificazione della memoria non basta, anzi nemmeno si può fare, se non passa attraverso una purificazione della concezione che abbiamo avuto di Dio. D’altra parte che cosa c’è nella memoria dell’umanità di più diffuso e di più profondo che la memoria di Dio? Come Dio è stato recepito e percepito, così è stata l’umanità e sono state le Chiese. La storia della violenza è stata indissociabile dalla storia di Dio nella storia. Perciò la purificazione della memoria è prima di tutto la purificazione della percezione e immagine di Dio. Ciò diventa veramente oggi, come dice il documento romano dei teologi del papa, “inseparabile dal futuro del cristianesimo” e offre alle culture secolari e alle religioni del mondo la reale opportunità per “un ripensamento dell’idea di religione”; e così potrà fiorire la pace sulle terre. 
Papa Francesco ha aperto il cantiere; e questo diventa ora il compito decisivo di questa e delle prossime generazioni.

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