di Marco Beccari
In una recente inchiesta, il settimanale l'Espresso [1] documenta il calo del numero dei dipendenti nelle principali aziende italiane negli ultimi 25 anni. L’idea di fondo dell’inchiesta è che l’introduzione delle tecnologie, come la robotica e l’intelligenza artificiale, nel mondo del lavoro, provoca disoccupazione strutturale. Si osserva, in Italia, una riduzione dell’occupazione, che colpisce sia l’industria che il settore dei servizi. Ne conseguirebbe che a lungo termine il lavoro non ci sarà più. Saremmo quindi di fronte alla “morte del lavoro”. In un futuro, più o meno lontano, i robot, sempre più evoluti, potranno rimpiazzare l’uomo in tutti i lavori, compresi quelli che richiedono intelligenza, come ad esempio l’educazione.
I fatti, tuttavia, mettono in evidenza un calo dell'occupazione e non la fine del lavoro, mostrano, cioè, che il lavoro tendenzialmente si riduce, ma non muore. Il motivo di questa improbabile “morte” lo si può cogliere riflettendo sulle vicende del settore dell'auto negli ultimi decenni. Un esempio emblematico è offerto dagli esperimenti della Fiat. Il tentativo negli anni ’80 di realizzare a Termoli una fabbrica senza uomini e senza scioperi, la Fabbrica ad Alta Automazione (FAA), è stato un colossale insuccesso. I macchinari erano inadeguati a gestire le frequenti variazioni dei prodotti e gli intoppi nel processo produttivo. Un piccolo inceppamento era sufficiente per fermare l’intera linea. Non a caso nell’industria dell'auto si afferma il modello toyotista della Fabbrica Integrata (FI), nel quale si riconosce che è il lavoro umano a produrre valore aggiunto e nel quale convivono robots e lavoratori umani. Lo stesso Taiichi Ohno, padre di quel modello, basato sulla “lean production”, osserva che le macchine presentano l’inconveniente di non essere capaci di pensare in modo creativo [2]. Infatti il robot non è in grado di risolvere problemi inattesi che sorgono nel processo produttivo.
Secondo Martin Ford, intervistato dall’Espresso, alla base di questo fenomeno, chiamato “disoccupazione tecnologica”, ci sono le macchine e il progresso tecnico. Purtroppo anche molti “marxisti” hanno fatto proprio il mito della fine del lavoro vivo, attribuendolo, alcuni, ad un passo dello stesso Marx pubblicato sui Grundrisse [3]. Per i sostenitori della “fine del lavoro” il capitalismo non è più quello studiato da Marx dunque la teoria di Marx è ormai un “ferro vecchio”, vale a dire una teoria obsoleta. La fine del lavoro, poi, implica la fine della teoria del valore con la conseguenza che il plusvalore non è più interpretabile scientificamente come sfruttamento del lavoro umano. Lo sfruttamento, dunque, diviene spiegabile solo in termini etici e morali, come ingiustizia retributiva. Evidentemente, se il marxismo è inattuale, allora non hanno più senso nemmeno i partiti che ad esso si ispirano. Con la fine del lavoro sarebbero finite anche le classi sociali e la lotta di classe e di conseguenza anche la storia [4] e non avrebbe più senso combattere il modo di produzione capitalistico, rimanendo l’ingiusta distribuzione di ricchezza l’unico terreno di lotta.
Oggi, questa antica tesi dei “socialisti ricardiani” è riproposta da Thomas Piketty [5]. Sono quindi richieste delle misure di ridistribuzione del reddito, di carattere assistenziale come il reddito minimo garantito o il reddito di cittadinanza. Queste misure, come è noto, non alterano il “salario sociale” della classe lavoratrice, formata dagli occupati, dai disoccupati e dai pensionati, ma piuttosto lo trasferiscono dai primi ai secondi, mediante la riduzione del salario diretto, con l’aumento del carico fiscale, di quello indiretto e differito [6].
La tesi della “fine del lavoro” non ha, tuttavia, basi solide. Dal punto di vista empirico non è affatto vero che il lavoro sia finito. Dal punto di vista teorico, come afferma Marx, non è il robot la causa della disoccupazione, ma il suo uso capitalistico [7]. Il problema, in altri termini, è il capitalismo, non i robot. I giornali, invece, fanno dipendere la disoccupazione dall'uso della tecnologia e non dall'uso capitalistico della tecnologia.
I dati dell’Espresso indicano che in Italia in 25 anni l’occupazione nelle principali 10 imprese si è ridotta ad un terzo. Se le più grandi imprese del paese nel 1990 contavano quasi ottocentocinquanta mila addetti, nel 2015 ne hanno solo duecentocinquanta mila. Ma, questo indica una riduzione del numero dei lavoratori, non la “fine del lavoro”. A lungo termine l’occupazione diventa sempre più piccola, ma non si può annullare. Questo è il significato scientifico di “tendenza” [8], espressa anche da Marx nel celebre “Frammento sulle macchine” dei Grundrisse. Lo sviluppo tecnologico riduce l’occupazione e causa il “deperimento” della legge del valore. Ma il “deperimento” non è la scomparsa della teoria del valore-lavoro. Il lavoro umano, pur se rattrappito nelle pieghe del macchinismo, resta sempre l’elemento attivo del processo produttivo e la macchina l’elemento passivo, che non crea plusvalore. Tesi ben sintetizzata dalla lettera di Marx a Kugelmann [9], nella quale si sostiene che senza il lavoro umano la società non può riprodursi.
Sul piano più strettamente empirico c'è un fatto che, a conclusione, merita di essere segnalato al lettore. Se si analizzano i dati ILO (International Labour Office) sulla disoccupazione mondiale si nota un trend di crescita a partire dal 2007, anno di minima disoccupazione. Il numero di disoccupati è passato da 170 milioni del 2007 a 197 milioni del 2012, e per il 2018 è stato stimato un numero pari a 215 milioni. La crescita dei disoccupati è localizzata prevalentemente in Occidente [10], dove il capitalismo è più sviluppato. Ciò, tuttavia, non indica una diminuzione dell’occupazione mondiale. Si osserva, infatti, una parallela crescita dell'occupazione, che passa da 2,6 miliardi di occupati del 2000 a 3,1 miliardi del 2012 [10] e l'aumento riguarda prevalentemente l'industria e i servizi [11]. Il calo degli occupati nel settore industriale dei paesi Occidentali, dunque, è compensato dall'aumento in altre zone del mondo [12].
Non ha senso parlare, perciò, di “fine del lavoro”, in particolare nell'industria. La diminuzione si osserva semmai solo nelle economie dei paesi sviluppati, a capitalismo più maturo. Tuttavia questa decrescita è ampiamente compensata dalla crescita nelle economie emergenti come Cina, India e Brasile. In definitiva, quindi, il lavoro umano nelle fabbriche e negli uffici non è finito, anche se l’automazione è in aumento. Il modo di produzione contemporaneo ha ancora le caratteristiche capitalistiche e l'analisi di Marx è più che mai attuale.
Fonti:
[1] L’espresso,Chiuso per fine industria, 16/10/2016.
[2] Taiichi Ohno, Lo spirito Toyota, Bollati Boringhieri, Torino, 1993, p. 152
[3] Domenico Laise, La natura dell’impresa capitalistica, EGEA, Milano, 2015.
[4] Francis Fukuyama, The end of history and the last man (La fine della storia e dell’uomo), 1992.
[5] Thomas Piketty, Le Capital au XXIe siècle (Il capitale nel XXI secolo), 2013.
[6] La scuola e la sanità pubblica sono esempi di salario indiretto, le pensioni di salario differito.
[7] Karl Marx, Il Capitale, Libro I Capitolo 13, macchine e grande industria.
[8] L’andamento del numero di occupati nel tempo può essere espresso con la funzione matematica esponenziale decrescente, la quale, nella sua rappresentazione grafica, evidenzia come al crescere del tempo il numero di occupati si riduce, assumendo un valore pari a zero per un tempo infinito.
[9] Karl Marx, Lettera a Ludwig Kugelmann, 11 luglio 1868.
[10] Dal 2007 al 2012 i disoccupati nelle economie sviluppate ed in Unione Europea sono cresciuti da 29,4 a 44,5 milioni. Altre crescite, ma più contenute, sono avvenute in Asia orientale, con una variazione da 31,4 a 38,1 milioni, in America latina, da 18,4 a 19,3 milioni, Medioriente, da 6,4 a 8,1 milioni, e in Africa, dove in Nord Africa si è passati da 6,8 a 8,4 milioni e nella zona subsariana da 22,4 a 26,3 milioni.
[11] Su scala mondiale il numero degli occupati in agricoltura è in diminuzione, riducendosi dai 1056,5 milioni del 2000 ai 990,9 milioni del 2012. Tuttavia gli impiegati nel settore industriale e dei servizi sono in crescita. I primi aumentano dai 536,3 milioni del 2000 ai 714,7 milioni del 2012. I secondi passano dai 1020,6 milioni del 2000 ai 1396,9 milioni del 2012.
[12] Gli occupati industriali, nelle economie sviluppate ed in Unione Europea, sono diminuiti dai 122,1 milioni del 2000 ai 106,5 milioni del 2012. Contemporaneamente negli stessi paesi sono aumentati gli occupati nei servizi da 301,5 a 349,5 milioni. In Asia orientale gli occupati nell'industria sono passati dai 177,4 milioni del 2000 ai 254,4 milioni del 2012. Nello stesso arco di tempo, in Asia del sud sono passati da 79,3 a 137,2 milioni; nel Sud-est asiatico e nella zona pacifica sono cresciuti da 39,6 a 59,9 milioni; in America latina sono variati da 44,2 a 57,7 milioni; in Medioriente sono cresciuti da 9,9 a 18 milioni; in Africa sono aumentati da 27,3 a 41,5 milioni; in Europa centro-orientale e negli ex-stati dell'URSS sono variati da 36,5 a 39,5 milioni.
Il presente articolo è una riflessione che trae spunto dal materiale didattico preparato dal compagno Domenico Laise, docente dell’Università La Sapienza di Roma e presentato ad un seminario “Sull'attualità del pensiero economico di Marx”, tenuto presso l'Università Popolare A. Gramsci, nell'anno accademico 2016-2017.
Fonte: lacittafutura.it
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