La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 14 marzo 2017

L’occasione perduta del Plan B

di Giulio AF Buratti
La sera dell’11 marzo scorso, un sabato, c’erano centinaia di persone in fila, composti, nella michelangiolesca piazza del Campidoglio, in attesa di accedere ai musei capitolini, ai piedi della scalinata che porta alla Sala della Pinacoteca. L’ingresso serale, gratuito o a due euro una volta tanto, attira molti di coloro che hanno dovuto tagliare le spese per la cultura a causa della crisi. Centinaia, di ogni età, e ignari che poche decine di persone fossero proprio alla Protomoteca alle prese con l’ambizioso progetto di un Plan B contro la stessa austerità che sottrae, tra gli altri, il diritto alla bellezza.
Racconto questo perché l’evento andato in scena al Campidoglio è la rappresentazione plastica, il film, dello stato della sinistra italiana. L’invisibilità, l’autoreferenzialità del ceto politico, la separazione dalla società. In sala, nel punto di massimo afflusso, c’erano 180 persone, levaci 45 relatori, una trentina tra interpreti, tecnici audio e video, custodi, vigili urbani, staff del gruppo consiliare e del Gue, un po’ di mogli, mariti e figli che hanno accompagnato le relatrici o i relatori, i pochi cronisti italiani e venticinque giornalisti francesi al seguito di Jean-Luc Mélenchon. Il leader di France insoumise ha approfittato dell’occasione per una passeggiata ai Fori nella location della prima secessione della plebe sull’Aventino del 494 a.C. Da lì ha dato l’annuncio del raggiungimento delle firme necessarie per la sua candidatura alle presidenziali. Quando lui e il suo seguito hanno lasciato la sala è sembrato quasi lo spettacolo di una scissione.
Insomma, tolti tutti gli addetti ai lavori, un parterre di tutto rispetto, non restava granché pubblico. Quasi tutti stranieri, specie i più giovani, dirigenti o militanti dei partiti del Gue. Insomma, chi c’era era già al corrente degli argomenti all’ordine del giorno: le migrazioni, la natura neoliberale del trattato di Maastricht, la svalutazione del lavoro e la natura della crisi europea, l’incompatibilità fra trattati e Costituzioni nazionali, specie quelle nate da lotte di liberazione antifasciste, la deriva mercantilista a partire dal Trattato di Roma del ’57 (firmato a pochi metri dalla sala) e la svalutazione del lavoro, la trappola del debito, le esperienze dei sindaci ribelli, le condizioni politiche per un’unione valutaria sostenibile. E, immancabile, euro sì euro no. Anzi, soprattutto questo. E’ possibile un divorzio amichevole dalla moneta unica? E’ possibile una riabilitazione delle politiche economiche dello stato-nazione? Come disobbedire ai Trattati? Insomma, quale Piano B?
Nulla a che vedere con la folla che aveva fatto irruzione, nel febbraio 2016, alla prima convention del Plan B, a Madrid. E nemmeno nulla a che vedere con la partecipata assemblea che, pochi mesi dopo, s’era svolta a Roma proprio per intraprendere anche in Italia un percorso di lotta e uno spazio di elaborazione contro l’Unione europea. In quella sede, un palazzo occupato, avevano preso la parola un operaio della Ford di Bordeaux (Philippe Potou che ora è candidato all’Eliseo per l’Npa), una studentessa delle Nuit Debut di Poitiers, un economista madrileno dell’ Auditoría Ciudadana de la Deuda, un dirigente della sinistra greca No Memorandum e poi eurodeputati del Gue e attivisti e militanti italiani anticapitalisti e antiliberisti. Di quei soggetti e di quel percorso, Fassina (ex responsabile economico del Pd, ora in Sinistra italiana su posizioni No euro), che ha gestito il meeting romano come fosse un evento privato, non ne ha voluto sentir parlare costruendo gli inviti secondo un manuale cencelli incomprensibile ed escludente.
La cosa non è passata inosservata nel dibattito finale a cui sono stati dedicati ben 35 minuti poco prima di sciogliere l’assemblea. Un sindacalista belga della rete eurosummit, Felipe Van Keirsbilck, ha chiesto dove fossero finiti i movimenti sociali. Imbarazzata la replica di Fassina: «Dobbiamo mettere radici sociali – ha ammesso – piano piano credo che…».
Ma le radici, o almeno gli embrioni, esistono già ma sono stati ignorati da Fassina oppure sono loro che ignorano i percorsi politicisti come quelli che si svolgono nel chiuso di una sala del Campidoglio.
48 ore dopo la chiusura del meeting, la dichiarazione finale non è stata ancora tradotta in italiano.

Fonte: popoffquotidiano.it 

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