di Valentina Pigmei
Ho deciso di festeggiare i 50 anni della pubblicazione di Lettera a una professoressa andando a visitare alcune scuole. Scuole, a volte soltanto virtuali, dove si fa ciò che sarebbe piaciuto al burbero priore di Barbiana: scuole un po’ strane, né pubbliche né private, scuole senza voti né bocciature, dove s’insegna a tutti, ricchi e poveri, italiani e immigrati, non “un ospedale che cura i sani e rifiuta i malati”, per usare le famose parole di don Milani. Scuole dove chiunque ha lo stesso diritto all’eccellenza, proprio perché s’insegna là dove sembra impossibile farlo: si fanno corsi di scrittura creativa a ragazzi che non hanno mai letto un libro, s’insegna italiano a migranti che sono spesso analfabeti nella loro lingua madre, s’insegna filosofia ai bambini delle elementari. Ma chi sono oggi i ragazzi di Barbiana? Non è facile rispondere. Sono gli immigrati? I ragazzi delle periferie? I carcerati?
Nuove povertà e nuove parole
Fondata a Roma dallo scrittore Eraldo Affinati insieme alla moglie Anna Luce Lenzi, la Penny Wirton è una scuola non profit dove i migranti possono imparare gratuitamente la lingua italiana. È una scuola aperta a tutti, con 22 sedi sparse per l’Italia.
Affinati, che insegna da 30 anni in un istituto professionale, non ha dubbi: “L’ultima foto di don Milani è un’immagine di lui con un bambino africano in braccio. Si parte da lì. Oggi i ragazzi di Barbiana sono quelli che arrivano dalla Nigeria, dalla Siria, dall’Afghanistan”. Affinati, autore di L’uomo del futuro, un libro straordinario che ripercorre la vita del priore, mi spiega che per don Lorenzo “la povertà non è solo quella economica, è la mancanza delle parole indispensabili per sciogliere i nodi dell’esistenza. Chi non sa esprimersi, non sa pensare”.
Se così è, allora temo che il problema sia più trasversale. Forse i ragazzi di Barbiana sono un po’ dappertutto: sono gli studenti delle periferie, quelli che abbandonano la scuola, quelli che non hanno nemmeno un libro in casa.
A questi ragazzi, e non solo, si rivolge il Centro formazione supereroi di Milano, una neonata associazione non profit, fondata da due editor di lunga esperienza e grande simpatia umana, Edoardo Brugnatelli e Giuseppe Strazzeri. Aiutati da 40 volontari tra scrittori, grafici, poeti, hanno cominciato a fare laboratori di scrittura creativa nelle scuole di Milano, dalla quinta elementare fino alle superiori.
Il progetto è quello di avere presto una sede a Milano, possibilmente in una zona periferica, dove poter accogliere i ragazzi dopo la scuola. Non sono certo i primi a farlo, negli Stati Uniti lo scrittore Dave Eggers (che è peraltro amico dei due milanesi) ha fondato nel 2002 826 Valencia, una scuola con simili intenti, che oggi ha sette sedi in altrettante città statunitensi e una versione inglese fondata da Nick Hornby. Progetti simili in Italia sono Il porto delle storie in provincia di Firenze e La grande fabbrica delle parole, sempre a Milano.
Qualche settimana fa mi sono faticosamente mimetizzata tra i banchi della classe prima H del liceo Besta di Milano (zona Cimiano) e ho assistito alla prima parte del laboratorio del Centro formazione supereroi. I ragazzi attorno a me avevano quella timidezza e quegli sguardi vacui tipici della loro età. Del resto, per loro il termine “scrittura creativa” è un concetto astruso e poco interessante. Brugnatelli ha captato subito la loro benevolenza chiedendo se per caso sapessero chi ha distrutto l’impero romano. “Non ci sono voti, né note sul registro”, li rassicura. Qualcuno borbotta, qualcun altro mormora piano piano: “I barbari?”. “Si dice che l’impero sia stato distrutto dai ratti”, dichiara l’insegnante e invita gli studenti ormai ammutoliti a disegnare un topo su un foglio di carta.
Dopo che ognuno ha prodotto il suo topo, Brugnatelli, tira fuori una pantegana di peluche dallo zaino e propone ai ragazzi di copiarla e poi confrontare i due disegni. Quando gli studenti si accorgono che sono migliori i disegni dal “vero”, è chiaro a tutti che per creare è più facile avere un modello.
Long John Silver non era un pirata, ma un amico del suo creatore, Stevenson, che aveva una gamba di legno; Severus Piton di Harry Potter era il professore di chimica dell’autrice, J.K. Rowling, e così via. Con questo semplice esercizio i ragazzi capiscono che per inventare spesso si parte dalla realtà cambiandola un po’, ma soprattutto capiscono una cosa importantissima: le loro vite o quelle dei loro amici e dei loro famigliari possono essere interessanti se raccontate in un certo modo. Ed è allora questi ragazzi di prima superiore, molti dei quali non hanno mai letto nemmeno Harry Potter, si mettono a scrivere la loro biografia in terza persona (che andrà poi stampata sul libro di racconti che produrranno alla fine del laboratorio).
Le biografie che i ragazzi scrivono sono davvero fantasmagoriche. Alcuni scrivono cose divertentissime, apocalittiche, perfino intime. Devo ammettere che trascorro due ore molto belle, e invidio un po’ i volontari del Cfs: il processo di veder studenti annoiati trasformarsi in scrittori in erba è energia allo stato puro. “Quando hai l’occasione di vederla davvero all’opera, la fantasia”, mi dice Brugnatelli alla fine, “quando sei di fianco a loro nel momento in cui scoprono di aver dentro di sé un sacco di storie, quando si accorgono che anche il più insulso pomeriggio della loro vita è interessante, be’ sono bei momenti anche per noi”.
Nel frattempo Francesco Gungui, uno dei volontari più attivi del Centro, scrittore per ragazzi con una grande esperienza di laboratori, ha tenuto un altro workshop nella stessa classe di fianco, dal titolo Racconta agli alieni il pianeta Terra. Prossimamente lavorerà con altre scuole, chiedendo agli alunni di intervistare il compagno di banco e scriverne la biografia futura. “I bambini e i ragazzi che seguono i nostri corsi”, spiega Gungui, “imparano tutte le risorse della comunicazione, imparano a esprimersi e ad articolare quello che pensano. Ne guadagna tantissimo l’autostima, la dignità”. Lo diceva Flannery O’Connor: “Io scrivo perché non so quello che penso finché non leggo quel che dico”. Sono certa che il Cfs possa diventare a breve un vero riferimento cittadino, “uno spazio accogliente e protettivo”, per usare le parole di un’altra leggendaria insegnante, Carla Melazzini.
Il costo dell’insegnamento
Don Milani era convinto che la scuola costasse molto poco. Per lui bastava “un po’ di gesso, una lavagna, qualche libro regalato e quattro ragazzi più grandi a insegnare”. In certi casi è vero, e la storia della Penny Wirton che racconterò nelle prossime righe, è la dimostrazione che si possa insegnare a costo zero.
Ma è vero anche il contrario. A volte ci vogliono molti denari, soprattutto se si tratta di offrire agli studenti uno spazio per approfondire la scienza e la tecnologia. Se vi capita di andare a Bologna, visitate l’Opificio Golinelli, è un’ex fonderia, nella periferia della città. È un posto aperto a tutti, scuole e privati cittadini, dai bambini di 18 mesi agli studenti universitari: novemila metri quadrati di struttura modernissima, colorata, luminosa.
Inaugurato nel 2015, l’Opificio è stato realizzato grazie a Marino Golinelli, un signore che oggi ha 97 anni, industriale modenese a dir poco illuminato, che ha deciso di fare questo regalo alla sua città d’adozione. Qui all’Opificio, un vero e proprio centro sperimentale, unico in Italia, per la sua offerta e completezza, ci sono stampanti in 3d, microscopi di ultima generazione, apparecchi per studiare il dna e molto altro. Nel 2016 l’Opificio ha accolto 150mila persone (fino a 400 studenti al giorno), tra i quali anche alcuni studenti dell’alternanza scuola/lavoro. Ma questo non è solo un posto per piccoli scienziati. In occasione della Bologna Children Book’s Fair il prossimo aprile, per esempio, si terranno qui una serie di laboratori, per la maggior parte gratuiti, tra i quali spicca Art Explosion, il workshop di action painting con Hervé Tullet (tutte le informazioni sul sito della fondazione Golinelli).
Pausa filosofica
Di eccellenza in eccellenza. A Roma c’è un giovane professore che da dieci anni organizza laboratori di filosofia per le scuole primarie (dalla terza elementare alla quinta) all’interno di alcune scuole pubbliche.
Di eccellenza in eccellenza. A Roma c’è un giovane professore che da dieci anni organizza laboratori di filosofia per le scuole primarie (dalla terza elementare alla quinta) all’interno di alcune scuole pubbliche.
Si tratta di un lavoro di semi-volontariato per Nicola Zippel, che di mestiere insegna al liceo (filosofia, ovviamente). “Lo faccio volentieri, perché dai bambini imparo una libertà e una freschezza di pensiero che non si trova più negli adulti”, racconta. “Oggi, al contrario, nella scuola c’è un grande bisogno di parlare di sé in maniera diversa, di introdurre temi differenti, anche per contrastare la tendenza ‘valutativa’ della nuova scuola che spinge i ragazzi alla competitività. Invece la filosofia insegna proprio come fermarsi a riflettere. Insegna a prendersi una pausa”.
Zippel lavora anche sulla formazione e sulla trasmissione del metodo, che lui ha ideato e che oggi è raccontato in un libro appena uscito, I bambini e la filosofia. Esemplare in questo senso è il lavoro fatto nell’ambito dell’alternanza scuola/lavoro dallo stesso Zippel, che ha portato due classi del liceo, divise in gruppi da tre, a tenere a loro volta i laboratori di filosofia ai bambini.
Un’operazione simile è quella che succede anche alla Penny Wirton di Eraldo Affinati dove alcuni dei volontari sono proprio i ragazzi dell’alternanza scuola/lavoro. Qui infatti è stato messo in pratica il metodo teorizzato da don Milani del “faccia a faccia”: ogni studente ha insegnante personale con cui entra in contatto diretto. A volte si tratta anche di ex maestri o pensionati.
La casa del pensiero
Entrando nei locali della Penny Wirton, che al momento ha una nuova sede in zona Ostiense grazie alla generosità della regione Lazio, si ha l’impressione di un affollatissimo alveare, pieno di banchi fitti. Lo spazio ormai non è sufficiente per i 180 studenti che la scuola ospita dal lunedì al giovedì pomeriggio, e per altrettanti maestri che siedono di fronte a loro.
Come mi spiega Affinati, il metodo “faccia a faccia” è fondamentale perché si riesce a promuovere una vera integrazione: spesso nascono addirittura rapporti duraturi tra i ragazzi e gli insegnanti. A Milano, dove la Penny Wirton è diretta dalla scrittrice Laura Bosio, ci sono ormai 150 studenti: “Grazie all’insegnamento ‘uno a uno’”, dice Bosio, “i nostri allievi non imparano solo la lingua italiana, ma lo ‘spirito’ di chi la parla, in un rapporto di scambio profondo. E la parola, lo sappiamo, è la casa del pensiero. Non siamo solo noi a dare a loro: ciascuno di questi ragazzi e ragazze ci porta qualcosa di importante, la loro storia -–spesso drammaticissima e vissuta con una forza interiore per noi inimmaginabile – la loro cultura, la loro giovinezza, la loro speranza, nonostante tutto. Come si augurava don Milani, anche noi speriamo che i muri delle nostre scuole assorbano la sofferenza e trasmettano idee”.
Peccato, penso, che queste esperienze trovino posto fuori della scuola e non dentro di essa e, se è vero che don Milani ha lavorato sempre ai margini dell’istituzione, quella scuola inclusiva e non classista da lui sognata e teorizzata non ha molto a che fare con quella di oggi, sempre più “americanizzata” e valutativa. Del resto per gli insegnati dare un voto è molto più facile di scrivere un giudizio. Insegnare può essere un lavoro molto faticoso. Quando a don Milani chiedevano: “Come bisogna fare a scuola?”, lui rispondeva: “Bisogna essere veri”. E a volte questa autenticità, come mi ha scritto Eraldo Affinati, “porta anche a farsi del male. Perché educare significa ferirsi, bruciarsi le mani”.
Fonte: Internazionale
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