La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 14 gennaio 2016

I compiti immediati della sinistra di classe in Italia e in Europa

di Fabio Nobile e Domenico Moro
I risultati delle elezioni di fine 2015 in Francia e in Spagna confermano la crisi del sistema bipolare e bipartitico dell’Europa occidentale. Tuttavia, crisi non vuol dire fine del sistema. Al contrario la crisi del bipolarismo fondato sull’alternanza di due partiti o coalizioni principali, l’una di centro-destra e l’altra di centro-sinistra, ha determinato un irrigidimento del modello politico in senso maggioritario. Ne troviamo un esempio in Italia nella proposta di riforme elettorali (l’Italicum) e costituzionali che rafforzano la governabilità intesa come predominio dell’esecutivo sul resto delle istituzioni e soprattutto sulla società. Grazie a leggi elettorali maggioritarie, partiti sempre meno rappresentativi riescono a garantirsi il primato, squalificando la rappresentatività delle istituzioni politiche agli occhi di milioni di elettori e accentuandone l’astensionismo.
Alla crisi del bipolarismo e del bipartitismo corrisponde - nella prevalenza dei casi - l’affermazione di terze e quarte forze, al di fuori dello schema di alternanza centro-sinistra/centro-destra.
Questi partiti, malgrado si caratterizzino per orientamenti politici a volte molto differenti, sono accomunati, nella maggior parte dei casi, dalla individuazione di cause e soluzioni alla crisi socio-politica al di fuori della crisi del modo di produzione capitalistico e del conflitto lavoro salariato-capitale. Infatti, le tematiche maggiormente agitate sono il pericolo dell’immigrazione e la critica, soprattutto di taglio morale, all’inefficienza e la corruzione della “casta” politica, le cui cause però non sono ricondotte in alcun modo agli interessi economici dominanti. A tali tematiche si aggiunge spesso la critica all’integrazione europea, in particolare all’euro, declinata, però, in chiave reazionaria e comunque sempre slegata dal conflitto lavoro salariato-capitale, essendo espressione, come nel caso della Lega e del Font National, di settori perdenti del capitale, ancora legati alla dimensione nazionale.
La sinistra in Europa e la questione dell’euro
In questo quadro i partiti comunisti e la sinistra nel suo complesso ottengono risultati disomogenei. Quello che emerge è l’assenza a sinistra di un orientamento, di una strategica e di un piano tattico comune. Ognuno declina la propria battaglia solo sul contesto nazionale, lasciando il resto come sfondo. Non si spiegano altrimenti i risultati diversi e le posizioni spesso poco chiare che oggi si esprimono.
Probabilmente il nodo fondamentale sta nel non aver capito fino in fondo la natura decisiva delle trasformazioni economiche in atto e soprattutto nel non averne tratto per tempo le necessarie conseguenze in termini di posizionamento e profilo politico. La gran parte della sinistra è rimasta ancorata ad una visione sorpassata dei rapporti politici di classe, essenzialmente alla formula del blocco sociale neokeynesiano, basato sul patto sociale fra lavoro salariato e grande capitale e fondato sulla redistribuzione del reddito mediante la crescita del debito pubblico. Eppure, questo tipo di blocco sociale era entrato in crisi già dai primi anni ’80 e si è disgregato progressivamente, perché la borghesia europea non è più interessata a questa formula di composizione del conflitto di classe, reputandola anzi il principale ostacolo, nelle nuove condizioni storiche, cioè alla necessaria – dal suo punto di vista – riorganizzazione dell’accumulazione capitalistica. Tali condizioni sono conseguenza di due fattori collegati, la crisi strutturale del modo di produzione capitalistico e la globalizzazione, e portano al passaggio da una forma di capitalismo con baricentro nelle singole economie nazionali a una forma di capitalismo il cui baricentro è internazionale. Da qui, l’inutilità e anzi la dannosità, per il capitale, delle politiche espansive di bilancio pubblico, a meno che non siano quelle puramente monetarie e finanziarie, che sono funzionali alla nuova fase globalizzata.
In Europa occidentale la leva principale della definitiva disgregazione del blocco sociale keynesiano e della riorganizzazione dell’accumulazione capitalistica coerentemente con i nuovi assetti globali va rintracciata nella delega di alcune funzioni economiche decisive dal piano nazionale a quello sovrannazionale. Il tassello decisivo di tale trasferimento è l’integrazione valutaria, che sottrae ai parlamenti nazionali il controllo sui bilanci pubblici e introduce l’obbligo di pareggio, attribuisce il controllo monetario ad una autorità pienamente indipendente (Bce) e realizza un regime di cambi fissi che portano alla deflazione salariale e alla contrazione della base produttiva e occupazionale. L’integrazione valutaria, e quelle bancaria e finanziaria che mirano a spostare il risparmio nazionale dal debito pubblico ai mercati finanziari, favoriscono la parte vincente del grande capitale cioè quello globalizzato, favorendo le delocalizzazioni, le acquisizioni di aziende pubbliche privatizzate e le fusioni internazionali. Le contraddizioni insite nella integrazione europea e nella nuova fase di globalizzazione sono emerse in tutta la loro gravità dopo lo scoppio della crisi nel 2007-2008. L’integrazione europea e in particolare l’architettura dell’euro hanno bloccato qualsiasi possibilità di risposta di intervento pubblico in termini anticiclici, peggiorando l’impatto della crisi e imponendo invece le cosiddette (contro)riforme di struttura (mercato del lavoro, welfare, pensioni, privatizzazioni) come soluzione alla crisi.
Ad ogni modo, al di là dei risultati elettorali rimangono i risultati politici, conseguenze di questa situazione economico-sociale. Il più importante, insieme alla crescita delle terze e quarte forze xenofobe e “populiste”, è rappresentato dalla crisi della socialdemocrazia europea (le varie componenti nazionali del partito socialista europeo), dovuta al suo farsi interprete fedele tra la fine degli anni ’90 e i 2000 delle politiche neoliberiste e di integrazione europea. Frutto della crisi della socialdemocrazia sono le numerose scissioni verificatesi negli ultimi anni all’interno dei partiti di questa area dalla Linke, al Parti de Gauche, ecc.
Tuttavia, anche quanto si sta muovendo a sinistra della socialdemocrazia europea ha mostrato negli ultimi anni delle insufficienze rispetto alla fase storica, rappresentate dal non aver saputo esprimere un posizionamento chiaro, efficace ed uniforme in particolare sulla questione dell’euro. La critica si è rivolta alle politiche neoliberiste fondate sull’austerity senza mettere in discussione tutta l’architettura dell’euro, che ne costituisce il fondamento economico e materiale. Le difficoltà del governo Tsipras nella rinegoziazione delle condizioni del debito, pur determinate anche dalla peculiare fragilità della struttura industriale greca, dimostrano che non è possibile saltare il nesso austerity-euro. Di conseguenza, recentemente sulla base dell’esperienza greca in alcuni settori della sinistra europea si è cominciato a prendere in considerazione la possibilità di elaborare un piano B (cioè di superamento dell’euro) in caso di non attuabilità del piano A (cioè di revisione dei trattati).
A Parigi, nell’estate scorsa è stato elaborato a un documento congiunto da parte di Varoufakis, Lafontaine, Melanchon e Fassina. Da alcuni il piano B è visto come una forma di pressione sulle istituzioni europee e la Germania per arrivare alla applicazione del piano A, cioè la revisione dei trattati. Il punto, però, è che la revisione dei trattati, avendo natura costituzionale, deve essere approvata dai governi della zona euro all’unanimità o eventualmente a maggioranza qualificata, senza dimenticare che bisogna comunque ottenere il consenso decisivo del governo tedesco. Tutte condizioni queste che sono difficilmente raggiungibili in maniera contestuale. Inoltre, la disobbedienza ai trattati da parte di uno o più governi implicherebbe comunque la rottura con l’area euro e non risolverebbe il problema dei cambi fissi e della indipendenza della banca centrale. Ma l’aspetto che pesa di più nel rendere difficilmente realizzabile una revisione concertata dell’architettura dell’euro è il fatto che gli interessi a sostegno dell’austerity e dell’integrazione valutaria vanno ben al di là della volontà dei governi, della banca centrale e delle imprese tedesche, coinvolgendo la parte vincente dell’intero capitale europeo, cioè quella che ha fatto il salto verso l’internazionalizzazione e che vede nell’euro la leva strategica per l’attuazione dei processi di trasformazione dell’accumulazione su scala continentale.
Eppure, nonostante queste evidenze, a sinistra continua a mancare una posizione definita sull’euro. Ciò è dovuto a varie ragioni. Tale limite è riconducibile in parte all’opinione che l’uscita dall’euro rappresenta un rischio, soprattutto legato alla crescita senza controllo dell’inflazione. In parte è riconducibile al convincimento che il problema non risieda nell’euro ma nella crisi del capitale e nell’attacco ai lavoratori mediante le politiche neoliberiste e che il ritorno ad una dimensione nazionale rappresenti un fattore di arretramento nazionalistico, facendoci confondere con partiti reazionari. Di conseguenza, alcuni ritengono che, dato il carattere ormai internazionale dell’accumulazione, bisogna ascendere allo stesso piano di lotta internazionale. Si tratta di obiezioni che sono da prendere in seria considerazione, ma che non riescono a negare la necessità del superamento dell’integrazione valutaria europea. Infatti, in primo luogo va premesso che sono molte le simulazioni di istituti bancari e finanziari che negano, a seguito di una uscita dall’euro, eccezionali impennate dell’inflazione, prevedendone una stabilizzazione nel giro di poco tempo. Ma, soprattutto, va notato che, dinanzi a quella che viene definita “crisi secolare”, il vero problema è la deflazione e non certo l’inflazione. Quanto al portare la lotta di classe direttamente a livello europeo, ciò certamente sarebbe importante, ma non ci sembra che oggi ce ne siano le condizioni immediate. Al contrario, è proprio la lotta contro l’euro e contro l’espropriazione di democrazia che può facilitare la costruzione di un processo di lotta a livello continentale, fornendo le basi oggettive per la ricomposizione di pezzi importanti del lavoro salariato a livello europeo. Infatti, mentre il capitale è ormai integrato a livello europeo (e non solo), la classe operaia e lo stesso mercato del lavoro rimangono (non casualmente) ben separati a livello nazionale. Inoltre, l’euro, ampliando i divari socio-economici tra Paesi, aumenta le divisioni fra i lavoratori a livello europeo ed è un fattore potente di scomposizione di classe. Infine, è certamente vero che la radice dei problemi attuali è rappresentata dal capitale e dalla sua crisi ma è pur vero che l’euro e l’integrazione europea sono l’arma principale di cui il capitale stesso si serve per affrontare la crisi a suo vantaggio e per neutralizzare la capacità di reazione delle classi subalterne. Dunque, porre la questione di come togliere al capitale una tale arma, riportando alcune funzioni di governo economico-politico a livello nazionale, è tutt’altro che un cedimento al nazionalismo. Al contrario, rappresenta un elemento da cui non si può prescindere per inceppare il meccanismo che sta stritolando milioni di lavoratori europei e che ha drasticamente mutato i rapporti di forza a favore del capitale. La questione dell’euro, cui è collegata la questione della internazionalizzazione dell’accumulazione capitalistica, è quindi un fattore dirimente nel panorama politico nazionale, caratterizzando, per il modo in cui viene affrontato, le varie forze politiche.

Fonte: controlacrisi.org 

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