di Giansandro Merli
Due settimane calde per i media renziani. In particolare per Repubblica, lanciata a spada tratta contro i 5 Stelle, di cui cancella d'un colpo solo ambiguità e contraddizioni per adattarli alle esigenze della campagna elettorale del Partito Democratico. Ha cercato di nascondere il significato politico del voto nelle principali metropoli della penisola. Ha provato a scaricare il peso della batosta sui dirigenti locali. Ha tentato di dimostrare “scientificamente”, con i numeri del fedele Istituto Cattaneo, che il PD avrebbe vinto la tornata elettorale. Adesso per Renzi e i renziani è il tempo del fango e del rancore.
L'urlo di rancore lo ha lanciato quasi subito Roberto Saviano, su Napoli. Saviano riesce a sostenere la linea di Renzi e a esaltarne la leadership anche dopo una sonora sconfitta che nemmeno il voto di scambio è riuscito a evitare e proprio mentre fa finta di criticarlo. Questo il succo del discorso: il PD napoletano è marcio (responsabilità locale) e Renzi ha sbagliato a non commissariarlo prima delle elezioni (intenzione che ha espresso il giorno dopo il voto). Ha voluto aspettare perché ha scelto di sacrificare il risultato amministrativo sull'altare del referendum costituzionale, su cui invece vuole canalizzare tutte le energie. Approfondito questo punto, Saviano si dedica a screditare la figura del sindaco De Magistris e, soprattutto, il progetto politico che la sostiene. Populismo, zapatismo, bolivarismo, presunte avanguardie napoletane di Hamas, linguaggio politico da e per gli ultrà, uso propagandistico dei centri sociali “residuali” sono l'elenco di accuse che Saviano, giudice del bene e del male, scaglia in ordine sparso contro l'ex magistrato che ha trionfato al primo turno, con il 42% dei consensi. Del resto, nell'ideologia del renzismo il voto può essere, all'occorrenza, fattore supremo di legittimità (quando si vince), sassolino nella scarpa (quando il quorum è un pericolo) o sfumatura di colore locale che non riguarda il quadro nel suo complesso. Del resto, Napoli rappresenta un rischio che può diventare concreto per Renzi: quello di un progetto alternativo al PD che non si risolva nella solita operazione di risciacquo del ceto politico di quella sinistra eternamente sconfitta.
E se a Napoli è l'ora del rancore, è su Roma che si concentrano le tonnellate di fango. Forse, il premier spera che una vittoria nella capitale lo risollevi almeno dal punto di vista della comunicazione politica. Forse, in questa città si condensano interessi troppo grossi e filiere di clientele troppo estese per lasciarla in mano ai 5 Stelle. O forse, sono quelli che La 7 chiama i “poteri forti” (palazzinari, speculatori, Vaticano) ad essere in agitazione perché rischiano di perdere una partnership consolidata negli anni in maniera trasversale al quadro politico bipolare. Oltre i “forse” restano gli articoli che Repubblica sforna a ciclo continuo. La strategia principale adottata dal giornale è quella di presentare il partito di Virginia Raggi come una formazione politica di destra. E poi di utilizzare qualsiasi mezzo necessario per screditarla agli occhi di nuovi possibili elettori.
È emblematico quanto accaduto il 9 giugno. Nello stesso giorno, su repubblica.it escono almeno 5 articoli che attaccano ferocemente i 5 Stelle lungo tre diverse linee: tendenze destrorse e leghiste; similitudini tra Grillo e un capomafia; corsie privilegiate per le candidate di Torino e Roma. E così via in crescendo, sino alla prima pagina e a due intere pagine interne di oggi 16 giugno.
L'ambiguità rispetto alle categorie tradizionali di destra e sinistra è costitutiva dell'esperienza dei 5 Stelle. Ed è noto a tutti che le posizioni indigeribili a un elettorato schierato a sinistra abbondano. Del resto, inviti al voto sono arrivati anche da esponenti di destra. Ma negli articoli di "Repubblica" non c'è spazio per alcuna ambiguità e non ci sono contraddizioni che tengano. Al contrario, la rappresentazione batte sempre sulla stessa corda, che è quella di accostare il 5 Stelle alle formazioni politiche della destra e dell'ultra destra.
Torniamo al 9 giugno e alle tre linee di attacco.
Prima: le affinità elettive e i presunti accordi sottobanco tra M5S e la Lega Nord. Ampio spazio a un'intervista a Matteo Salvini che parla di “un'alleanza nei fatti”, sebbene debba ammettere di non conoscere e non aver mai incontrato i principali esponenti pentastellati. Poi, articolo che descrive il patto delle due formazioni politiche in funzione anti-Renzi. E infine, rilevazione sviluppata dall'Istituto Demos e commentata da Ilvo Diamanti. Il campione, di circa 1.000 casi risalenti al febbraio scorso, dimostrerebbe un rapporto biunivoco tra i 5 Stelle e i partiti di destra, soprattutto la Lega, sulla base di una comune natura “anti-sistema” e delle richieste sovraniste contro Unione Europea e immigrazione. Rispetto alla prima questione, quella dell'accordo sottobanco, la smentita arriva già il giorno seguente.
Seconda: Francesco Merlo (che già in altri articoli aveva dimostrato lafedeltà al capo, ottenendo un meritato ritorno) scrive un lungo articolo in cui paragona Grillo a un boss della mafia. L'incipit è degno di un romanzo ambientato a Corleone: «Insulti e pizzini. Incappucciato come il mafioso Malpassotu, Beppe Grillo blog-scaracchia sugli avversari politici. Si è infrattato nella sua villa sarda, fra le acacie e i cavi usb, proprio come si infrattava quel Malpassotu che, da un buco della campagna siciliana, masticando odio e cicoria, scagliava i suoi pizzini per sfregiare i nemici e umiliare gli innocenti». Secondo il giornalista di "Repubblica", Grillo avrebbe avuto un «travaso di umore» di fronte a candidati lontani dagli «squinternati d'assalto» della prima ora e a causa di proposte politiche più concrete di quelle degli albori. Al rischio della fine dell'era Casaleggio, insomma, Grillo starebbe rispondendo con fare mafioso, come «un capocosca che, nascosto nella macchia e protetto dalla Rete, organizza scorrerie».
Terzo: le «strade spianate». Laura Onofri, esponente PD che ha avuto un ruolo nella vecchia giunta Fassino e si è anche ricandidata in queste elezioni, sempre a Torino, scrive una lettera. Che, però, firma come “presidente uscente della commissione Pari Opportunità di Torino”, quindi mettendo in evidenza un ruolo istituzionale. Ruolo istituzionale che avrebbe molto a che fare con le questioni di genere all'interno del mondo della politica e delle istituzioni. Una donna che ha lavorato in una simile commissione dovrebbe quantomeno non disdegnare il fatto che in due grandi città italiane sono arrivate al ballottaggio due donne. E invece? Invece, siccome quelle due donne sfidano due uomini del PD, il tono della lettera (che è una risposta a un articolo di Concita de Gregorio apparso giorni prima sulla stessa testata) è questo: ma quali donne normali, Raggi e Appendino hanno avuto la strada spianata sia dal punto di vista lavorativo, che politico.
Adesso, verrebbe da porsi una domanda semplice: da quale pulpito viene la predica? Il giornale che accusa i 5 Stelle di essere fondamentalmente di destra è fedele a chi ha rottamato non un progetto rivoluzionario comunista ma un già sciapo e moderato partito di centro-sinistra. È il giornale di chi in Italia è rappresentante ed esecutore delle politiche neoliberali dell'austerity e dei sacrifici. Di chi sta conducendo una guerra senza quartiere a qualsiasi forma di opposizione interna posizionata leggermente più a sinistra (per quanto questa parola possa avere un significato all'interno del Partito Democratico). Il giornale che paragona Grillo a un capomafia è l'espressione della formazione politica più compromessa con Mafia Capitale e che a due giorni dalle ultime elezioni vede già alcuni esponenti indagati per associazione a delinquere e voto di scambio (a Napoli). Sull'ultimo punto, che dire? Pur non conoscendo la biografia di Laura Onofri, che magari si è “fatta da sola” o magari no, si potrebbe far notare che la suddetta ha scelto di sostenere un partito, il PD, che a spianare le strade è maestro assoluto, da Maria Elena Boschi al figlio di De Luca.
Infine, in ogni strategia comunicativa, oltre al detto, conta anche il non detto. Pochi giorni fa sono circolate indiscrezioni intorno a tre nomi che potrebbero andare a comporre la nuova giunta di Virginia Raggi. Dal punto di vista strettamente giornalistico, questa è una notizia che meriterebbe spazio. A maggior ragione perché si tratta dei primi nomi che circolano rispetto a una possibile amministrazione a 5 Stelle. E si tratta anche di nomi abbastanza pesanti, perché con una chiara connotazione politica di sinistra e con riconosciute competenze professionali. I nomi sono quelli di Paolo Berdini (uno dei massimi urbanisti italiani, profondo conoscitore di Roma e da sempre vicino alle battaglie degli spazi sociali), Tomaso Montanari (storico dell'arte di fama internazionale ed esperto del patrimonio artistico romano e nazionale), Raphael Rossi (studioso del ciclo di smaltimento dei rifiuti). Queste indiscrezioni hanno provocato quasi subito delle scosse di terremoto nel panorama romano, tra esponenti dei partiti a sinistra del PD che invitano esplicitamente a rompere gli indugi e votare al ballottaggio per Virginia Raggi (da Acerbo aFratoianni) e blogger che propagando “ordine e decoro” in preda al panico (vedi la campagna di RomaFaSchifo contro la possibilità di una giunta 5 Stelle sbilanciata a sinistra). È chiaro che tre nomi non fanno la giunta e per ora di indiscrezioni si tratta, però ci si aspetterebbe almeno che "Repubblica" ne parli. Abbiamo visto quanto impegno sta dedicando al M5S e ai suoi candidati. Invece, nei primi giorni niente e in seguito solo stralci. In particolare è su Berdini, che dei tre è quello che ha provocato maggiore dibattito, che cala il silenzio. Provate a scrivere “Paolo Berdini Repubblica.it” su google. Gli unici risultati aggiornati a questi ultimi giorni sono due articoli apparsi su "Espresso" e "MicroMega" (che commentano molto positivamente l'indiscrezione).
Gli scoop e le bordate continuano fino ad oggi. L'affaire D'Alema, per due giorni tra le primissime notizie del sito, probabilmente vuole alludere almeno a tre cose distinte: il fatto che Virginia Raggi è appoggiata dalla vecchia politica (tema sollevato ripetutamente da Giachetti); la presenza di sabotatori interni al partito che sono responsabili delle sconfitte di Renzi; la guerra preventiva a qualsiasi comitato per il NO, specie se interno al PD.
Sempre oggi, sono da rilevare la massima centralità attribuita alla “fuga di Vendola” per garantire il bambino nato da una “maternità surrogata” all'interno di una relazione omosessuale. Fatto che Repubblica, in maniera davvero vergognosa data la delicatezza dell'argomento, utilizza per screditare ulteriormente SEL, guarda caso proprio il giorno dopo l'endorsement ufficiale di Fratoianni ai 5 Stelle su Roma e Torino. E c'è anche il videoforum con Malagò, presidente del CONI, tutto focalizzato a sostenere la presunta inconsistenza del referendum sulle Olimpiadi sostenuto da Raggi e, soprattutto, la tesi di Giachetti che i Giochi sarebbero una grande occasione non per gli speculatori, ma per i cittadini, i quali potrebbero godere di investimenti infrastrutturali altrimenti impossibili.
Insomma, dopo un ventennio trascorso a condurre crociate per la libertà d'informazione e contro il regime dell'informazione berlusconiana, in poco più di due anni di governo Renzi Repubblica sembra diventata un ingranaggio dell'ufficio stampa del primo ministro.
Effetti collaterali del renzismo.
Fonte: dinamopress.it
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