di Fabrizio Tonello
Non erano passate 24 ore dall’intervista di Hillary Clinton in cui attribuiva la propria sconfitta nel 2016 al comportamento del direttore dell’Fbi James Comey che Donald Trump licenziava senza preavviso lo stesso Comey. Licenziato addirittura mentre costui si trovava a Los Angeles e parlava con i suoi agenti. E con quale motivazione il presidente giustificava un atto assolutamente eccezionale nella storia americana (il fondatore J. Edgar Hoover non fu mai cacciato da nessuno degli otto presidenti che in teoria avrebbe dovuto servire)?
La lettera di Trump fa riferimento proprio all’indagine dell’Fbi sulla Clinton per aver usato un account di mail privato invece di quello ufficiale mentre era Segretario di Stato. Indagine ovviamente pretestuosa ma che era stata richiesta a gran voce dal partito repubblicano e pubblicamente lodata in numerose occasioni dallo stesso Trump.
La lettera di Trump fa riferimento proprio all’indagine dell’Fbi sulla Clinton per aver usato un account di mail privato invece di quello ufficiale mentre era Segretario di Stato. Indagine ovviamente pretestuosa ma che era stata richiesta a gran voce dal partito repubblicano e pubblicamente lodata in numerose occasioni dallo stesso Trump.
Quindi ora sono i democratici, danneggiati dalle “rivelazioni” di Comey a pochi giorni dalle elezioni, a difenderlo e ad accusare Trump di averlo eliminato per soffocare nella culla l’indagine sui rapporti dei suoi collaboratori con la Russia. I senatori democratici (e anche qualche repubblicano) chiedono ora la nomina di un magistrato indipendente per portare avanti l’indagine sui contatti fra l’entourage di Trump e Putin. La realtà politica di Washington assomiglia sempre di più a una serie televisiva di Netflix, ma non la curatissima House of Cards, piuttosto un’imitazione non troppo ben riuscita: il tema del presidente traditore, al servizio di una potenza straniera, risale alle origini della nazione ed è stato la fonte di innumerevoli prodotti letterari e cinematografici, come il celebre The Manchurian Candidate del 1962, di cui è stato fatto un remake da Jonathan Demme nel 2004.
La fatale parolina “Watergate” è sulle bocche di tutti i giornalisti, palesemente nostalgici di quell’anno 1974 quando un presidente repubblicano fu costretto alle dimissioni da due cronisti del Washington Post senza macchia e senza paura. Purtroppo in questa sceneggiatura c’è un difetto: nei 230 anni di vita della costituzione americana, nessun presidente è mai stato rimosso dal suo incarico attraverso l’impeachment.
Richard Nixon si dimise avendo perso l’appoggio del suo partito, ma non è affatto sicuro che un eventuale processo si sarebbe concluso con la sua destituzione. Il motivo è semplice: la costituzione esige un amplissimo consenso per rimuovere il presidente, un accordo che si deve concretizzare in un voto a maggioranza semplice della Camera e a maggioranza di due terzi del Senato. Storicamente, questo non è mai avvenuto.
Non solo: i democratici, oggi in minoranza in entrambe le camere, non hanno la più vaga possibilità di condurre in porto la rimozione di Trump per i suoi legami, veri o presunti, con Putin: l’interesse dei repubblicani a mantenere il controllo della Casa bianca è troppo forte. I repubblicani sono un partito assetato di potere e disposto a tutto per cancellare anche il ricordo degli otto anni di Obama: per attuare anche solo parzialmente il loro programma hanno bisogno di Trump quanto questi ha bisogno di loro. Certo, avremo i fuochi artificiali sulle prime pagine per mesi ma forse sarebbe il momento di chiedersi se le chiacchiere sui complotti russi non oscurino notizie ben più gravi, come i bombardamenti in Medio Oriente e in Afghanistan, le deportazioni di massa di immigrati, compresi molti che vivevano negli Stati Uniti da decenni, e la cancellazione delle regolamentazioni ambientali introdotte da Obama.
I democratici hanno adottato uno storytelling in cui hanno perso le elezioni perché il nemico storico complottava nell’ombra, ma non è così: hanno perso perché, oltre ai milionari, una parte della classe media impoverita e della classe operaia danneggiata dalla globalizzazione hanno preferito Trump. Hanno perso perché avevano in Hillary Clinton un pessimo candidato e perché il bilancio degli anni di Obama non era così entusiasmante come dicevano. Le chiacchiere sui complotti russi servono solo a cancellare la riflessione sulle loro responsabilità e su cosa dovrebbe fare un partito che volesse difendere gli interessi dei più deboli.
Fonte: Il manifesto
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.