di Claudio Conti
Mentre tutti giocavano a fare il “Macron italiano”, cercando di posizionarsi al meglio ai nastri di partenza delle ormai prossime elezioni politiche, il quasi ex presidente della Consob, Giuseppe Vegas, avvertiva tutta la classe politica che il gioco sta per cambiare ancora una volta. "L'inflazione si sta progressivamente riportando in prossimità dell'obiettivo del 2 per cento, mentre negli Stati Uniti è già in corso un inasprimento monetario. L'Italia dovrà preparasi ad affrontare la nuova situazione che si profila, non potendo più contare sul puntello esterno della leva monetaria".
Qualche spiegazione per i non addetti ai lavori è necessaria. Il prolungarsi della crisi – dieci anni, ormai – ha scatenato una recessione produttiva disastrosa, che ha avuto come unico effetto apparetemente “positivo” l’azzeramento del tasso di inflazione. Ma i prezzi stabili intorno allo zero percento annuo – o addirittura in zona negativa (deflazione), come avvenuto per qualche mese anche in Italia – sono a loro volta un problema, perché si bloccano gli investimenti privati (un’azienda non investe soldi per produrre di più se non c’è abbastanza domanda, e quindi prospettive di prezzi in crescita controllabile).
A questo problema ha fatto fronte il quantitative easing della Bce, che "ha ridotto la pressione su quei Paesi, come il nostro, che più di altri avevano bisogno di recuperare terreno sul piano della competitività, della stabilità e della convergenza". In altri termini, con i pressi bassi e i tassi di interesse a zero, l’Italia e altri paesi con un debito pubblico molto alto (come la Francia) hanno potuto per qualche anno pagare meno interessi sul debito.
Nelle intenzioni di Mario Draghi e di tutta l’Unione Europea questa disponibilità di denaro avrebbe dovuto per un verso aiutare l’inflazione a risalire verso il livello considerato fisiologico (intorno al 2%), per un altro aiutare quegli stessi stati a correggere il livello del proprio debito pubblico. In realtà non c’è riuscito nessuno, non solo l’Italia, perché – soprattutto a causa dei tagli alla spesa pubblica imposti dall’Unione Europea per ridurre quel debito – è venuta completamente a mancare la crescita economica. Quindi l’ammontare del debito, nonostante le risorse supplementari ricavate dalle privatizzazioni di società pubbliche, è rimasto grosso modo lo stesso, se non addirittura aumentato.
Secondo l’ottusa logica ordoliberista, comunque, "questa opportunità non è stata colta". E nonostante lo stesso Vegas la indichi, non riesce a spiegare perché negli ultimi vent'anni il "sistema produttivo italiano ha subito un'erosione di competitività nell'ordine del 30% rispetto alla Germania", divario che è all'origine del "differenziale di rendimento" tra i titoli di Stato dell'Eurozona.
Non c’è infatti soltanto il peso negativo dell’euro ("La moneta unica – ha aggiunto Vegas – ha creato un ecosistema in cui la competitività può essere difesa e incrementata solo attraverso le leve dell'istruzione, dell'innovazione e delle riforma del quadro macroeconomico"), ma anche la ristrutturazione delle filiere europee del valore a vantaggio delle hoding tedesche, in un processo di depauperamento continuo delle capacità industriali di quesi tutti gli altri paesi Ue.
Ora i pericoli che si addensano all’orizzonte sono enormi e numerosi. A cominciare naturalmente dall’avvicinarsi del momento in cui i tassi di interesse riprenderanno a salire (ora sono a zero, ripetiamo), e dunque aumenterà contemporaneamente sia il livello di spesa pubblica annuale per pagare gli interessi sul debito, sia le difficoltà delle imprese di finanziare le proprie attività. Per le banche, naturalmente, questo significherà un aumento delle “sofferenze” (crediti non restituiti), che già oggi costituiscono un problema irrisolto, visto che il meccanismo del bail in (deciso dalla Ue, addebitando i costi dei salvataggi bancari ad azionisti, obbligazionisti e correntisti al di sopra dei 100mila euro) ha aggravato l’incertezza sulla stabilità del sistema creditizio, invece di contribuire a risanarlo.
Non bastasse questo, c’è anche cosiddetta la sfida Fintech, "ovvero digitalizzazione e disintermediazione dell'industria finanziaria", con la prevedibile esplosione di attività finanziarie opache, irresponsabili (più di ora? sì), rapinatorie e difficile persino da indagare grazie ai meandri teoricamente infiniti creati dalle tecnologie informatiche. Tanto che Vegas non si è negato la battuta ad effetto: "Le stesse autorità di controllo dovranno adattare al nuovo contesto strutture e metodi di lavoro", perché "nella Consob di domani ci sarà bisogno di più ingegneri e meno avvocati".
E’ finita qui, almeno? Ovvio che no. Il risultato delle elezioni francesi assicura – a meno di sorprese rilevanti nelle legislative del prossimo giugno, che decideranno se Macron avrà oppure no una maggioranza stabile – un rafforzamento dell’”asse franco-tedesco”, che dovrebbe logicamente tradursi in una riforma dall’alto della stessa Unione Europea. Una riscrittura delle regole in senso ancora più vincolante, dunque più punitivo dei paesi con più problemi. Il che disegna un quadro in cui, chiunque vinca le elezioni italiane (a settembre o febbraio prossimi) si troverà senza una sponda per contrattare margini supplementari di “flessibilità”.
Non stiamo svelando un segreto. Chi governa in questo momento lo sa benissimo. Se volete trovare una ragione strutturale alla base dei due “decreti Minniti” (su “decoro urbano” e immigrazione) bisogna guardare a questi processi, che implicheranno “manovre” sanguinosissime, tagli mai visti a welfare e dipendenti pubblici, compressione dei salari al di sotto dei livelli di sopravvivenza e, per la prima volta, riduzioni significative degli assegni pensionistici in essere. Come avvenuto in Grecia, per chi volesse un precedente.
E quando uno Stato non ha più margini materiali di “mediazione politica e sociale” – che significa spesa pubblica per welfare, ammortizzatori, redistribuzione, ecc – l’unica soluzione che può immaginare è la militarizzazione del normale conflitto sociale.
Fonte: contropiano.org
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