di Biagio Quattrocchi
È da poco uscito l’ultimo libro di Marco Bersani dal titolo Dacci oggi il nostro debito quotidiano , edito da DeriveApprodi (pp. 172, 12 €). Prima di ogni cosa, si tratta di un riuscito lavoro di ricerca militante. Il libro presenta una critica dell’economia politica del debito (pubblico e privato), ma vuole essere principalmente, come sostiene lo stesso autore, uno strumento per organizzare la lotta sugli effetti del debito sulle nostre vite. È un libro che nasce dall’interno dei conflitti sociali sviluppati sui temi della finanza negli ultimi 16-17 anni almeno. Non poteva essere altrimenti.
Marco in tutto questo periodo ha organizzato lotte, promosso campagne, realizzato centinaia di iniziative su terreni collegati alla finanziarizzazione dell’economia. Ricorderete l’inizio dei duemila, quando attraversavamo le strade di Genova, la campagna di Attac sulla Tobin tax, oppure il lavoro più recente svolto intorno alla privatizzazione di Cassa Depositi e Prestiti, o ancora, la straordinaria campagna referendaria sull’acqua bene comune. Ecco, dietro tutte queste lotte c’è sempre stato il suo prezioso lavoro organizzativo.
Marco in tutto questo periodo ha organizzato lotte, promosso campagne, realizzato centinaia di iniziative su terreni collegati alla finanziarizzazione dell’economia. Ricorderete l’inizio dei duemila, quando attraversavamo le strade di Genova, la campagna di Attac sulla Tobin tax, oppure il lavoro più recente svolto intorno alla privatizzazione di Cassa Depositi e Prestiti, o ancora, la straordinaria campagna referendaria sull’acqua bene comune. Ecco, dietro tutte queste lotte c’è sempre stato il suo prezioso lavoro organizzativo.
Il libro si apre con una genealogia dell’economia politica del debito, ma poi si sofferma giustamente sulla fase neoliberale, perché è solo in questo lungo ciclo economico che in modo del tutto inedito si assiste ad un profondo mutamento nella funzione politica del debito. Partirò da questi aspetti provando a dialogare con alcune tesi contenute in questo lavoro.
Una delle tesi centrali, che emerge in diverse parti del libro, riguarda la nozione stessa di debito (che avvicina l’autore ad una buona parte della teoria economica eterodossa). Diversamente dalla teoria economica dominante, l’autore mostra come il debito rappresenti principalmente una specifica forma di relazione capitalistica. Il debito non è solo una quantità monetaria, un concetto statico di valore, neppure solo una forma di ricchezza. Il debito è prima di tutto una relazione di potere tra due soggetti o tra due istituzioni. E come tutte le forme di potere è sempre un rapporto asimmetrico. Partendo dal lavoro di un antropologo americano, David Graeber, mostra come il debito sia una forma di relazione antica, che ha attraversato interamente la storia dell’economia, pre-esistendo all’affermazione e allo sviluppo del capitalismo. Dunque, si potrebbe dire, una forma di relazione antica da sempre fondata su uno squilibrio di potere: da un lato, il creditore, colui che possiede la moneta, dall’altro il debitore, colui che ha una insufficienza di moneta ed ha bisogno di reperirla per svolgere alcune attività riproduttive fondamentali, e per farlo deve necessariamente stare alle regole di gioco imposte del primo. Per rafforzare questa tesi l’autore sostiene, in modo molto convincente, che, in realtà, ai creditori non conviene affatto che il debito (privato o pubblico) sia interamente estinto. Quello a cui i creditori sono veramente interessati è che la spesa per interessi sia continuamente pagata dal debitore. Il creditore è interessato al fatto che la “catena del debito” non si spezzi mai. Solo così può avere luogo il comando della finanza sulle vite e la capacità “estrattiva” del capitale finanziario.
Dalla lettura del libro si comprende, poi, un’altra cosa fondamentale che è assai utile ribadire, ossia che la relazione capitalistica tra creditori e debitori è, a sua volta, strettamente collegata a tutte le altre relazioni di natura monetaria. Per chiarire questo concetto potrebbe essere utile far riferimento ad altri autori. Mi soffermerò sugli economisti del “circuito monetario” e, per affinità, su alcuni lavori contenuti in quello straordinario laboratorio teorico-politico che è stata la rivista storica «Primo Maggio»(diretta da Sergio Bologna), per descrivere una cosa in particolare: che il rapporto creditore-debitore, oltre ad essere una forma di relazione di potere antica, non è un rapporto che si somma semplicisticamente alle altre molteplici relazioni economico-monetarie, come ad esempio alla relazione conflittuale tra salari e profitti, dentro la lotta di classe. Al contrario, il rapporto finanziario creditore-debitore, attraversa trasversalmente tutte le altre relazioni ed espressioni monetarie, fino a rappresentarne una componente interna degli altri rapporti economici, compreso quello che riguarda, appunto, la relazione salariale. Questo perché in una economia monetaria di produzione, la moneta, il circolante, le banconote che abbiamo nelle nostre tasche, sono di per se stesse frammenti di debito. In ogni singola moneta, oltre ad essere contenuto, come in un cristallo, il rapporto sociale di sfruttamento, resta impresso anche il segno della relazione di potere che lega i creditori ai debitori.
Nel capitalismo la moneta non casca dagli alberi. Deve essere prodotta e messa in circolazione. Nel neoliberismo, per semplificare il discorso, tre sono i canali principali attraverso cui la moneta è prodotto e messa in circolazione:
1 Le imprese per avviare la produzione, per acquistare capitale fisso e capitale variabile (forza lavoro) si indebitano presso le banche facendo affluire denaro nell’economia. Dunque, comprenderete, che nella relazione salariale tra il padrone e il lavoratore, anche se superficialmente non si vede, agisce l’ombra della relazione finanziaria da cui siamo partiti. Il rapporto conflittuale tra padrone e lavoratore è, in realtà, sempre una triangolazione di potere, che frappone da un lato frazioni diverse di capitale, dall’altro la forza lavoro.
2 La moneta entra in circolazione quando le banche prestano denaro direttamente alle famiglie, attraverso il credito a consumo, i mutui, le carte di credito, ecc… Qui siamo evidentemente nel campo dell’indebitamento di massa tipico del neoliberismo, tema affrontato in diversi studi.
3 Infine, il terzo canale riguarda l’acquisto dei titoli pubblici da parte delle banche centrali e delle banche private sui mercati secondari.
Ora forse capirete bene che in tutte le relazioni monetarie fondamentali che ho appena descritto, quando il padrone ti paga il salario, quando si acquistano beni di consumo, quando i governi fanno spesa pubblica per finanziare servizi, scuola, sanità, all’origine c’è sempre una relazione finanziaria tra creditori-debitori.
Torniamo adesso al libro di Marco. Il processo di finanziarizzazione dell’economia capitalistica che l’autore descrive molto bene, possiamo dire, da un lato, poggia su questa caratteristica di fondo dell’economia monetaria di produzione, per alcuni versi un invariante storico dello sviluppo capitalistico, dall’altro, invece, dà conto della nuova intensa pervasività del comando finanziario. Ecco perché, per dirla con Christian Marazzi, nel neoliberismo si è persa completamente qualsiasi concreta ed utile distinzione tra economia finanziaria ed economia reale.
Ora, una cosa a cui dobbiamo stare attenti, quando svolgiamo le nostre lotte sul debito in alcune città dove stanno nascendo le prime esperienze di “auditoria”, in Italia come in Spagna, è quello di prosciugare la nostra critica al comando finanziario del debito da ogni residuo moralistico. Il debito non è aprioristicamente un male assoluto. Lo abbiamo imparato studiando criticamente Keynes, ma soprattutto ce lo dicono le lotte.
Lungo il ciclo fordista-keynesiano c’è stato un altro tipo di contesa sul debito pubblico. Allora erano le lotte operaie, quelle femministe, attraverso le rivendicazioni del welfare, di migliori livelli per la riproduzione sociale, a determinare uno specifico “uso politico del debito” da parte della classe operaia. La relativa crescita del debito pubblico di alcuni principali Paesi, in quel periodo, anticipava l’aumento di quote di salario indiretto. La crescita del debito, dunque, era la conseguenza di un aumento della spesa pubblica. Queste lotte dal basso, badate bene, si innestavano in un quadro segnato dall’alto dalla presenza dello Stato-Piano, o se preferite dello Stato del benessere à la Pigou. Di una forma-Stato che faceva della programmazione economica centrale una sua caratteristica fondamentale. La richiesta di un aumento di spesa pubblica che proveniva dalle lotte si agganciava, suo malgrado, ad una diversa esigenza dell’establishment del tempo, che puntava a contenere il comando sulla “domanda effettiva”. I marxisti più ortodossi non hanno mai dato segno di aver capito particolarmente bene Keynes. La nozione di “domanda effettiva” non chiama genericamente in causa i moltiplicatori attivati dalla domanda a favore della crescita; dire "domanda effettiva" è dire chi ha il comando politico sulla crescita e sulla distribuzione del sovrappiù. Dunque, mentre le lotte praticavano autonomamente l’“uso politico del debito”, l’aumento della spesa che ne derivava veniva sfruttato per assicurare la crescita dell’accumulazione e per contenere le spinte rivoluzionarie dentro un quadro di compatibilità.
Per giunta, l’“uso politico del debito” da parte delle lotte aveva concretamente luogo nelle metropoli, prendendo talvolta la forma di un “uso politico del debito delle città”. È alla luce di questi aspetti che si può far riferimento alla crisi fiscale delle città intorno alla seconda metà degli anni Settanta, descritta molto bene da Henri Lefebvre.
Il libro elenca molto bene alcuni passaggi fondamentali che preparano l’apertura al nuovo ciclo neoliberale dal punto di vista istituzionale. Nel 1971, come noto, il Presidente Usa Richard Nixon dichiara l’inconvertibilità del dollaro in oro e annuncia la fine degli accordi di Bretton Woods. Successivamente nel 1979, l’allora presidente della Fed, avvia il cosiddetto “Volker shock”, aumentando bruscamente i tassi di interesse, con l’effetto di far crescere le possibilità di finanziamento delle istituzioni attraverso i mercati borsistici. In mezzo a queste date, non va però dimenticata la vicenda della città di New York e della sua crisi fiscale consumata a partire dal 1973. La città americana iniziava a de-industrializzarsi e gli investimenti privati hanno assecondato l’esodo delle industrie e così gli operatori finanziari hanno deciso di non finanziare più la città attraverso l’acquisto dei city bonds. La soluzione a questa crisi fiscale allora venne dai sindacati che decisero di acquistare con i propri fondi pensione le obbligazioni cittadine, anticipando quello che poi diventerà la “rivoluzione dei fondi pensione”. Ciò che non va sottovalutato è che la città e la sua politica di bilancio si è trovata spesso a svolgere una funzione di laboratorio, anticipando processi generali. Il neoliberismo non entra necessariamente nella contabilità dei bilanci delle città “per caduta”, come risultato di processi che nascono altrove. Al contrario, non va mai trascurato la sperimentazione neoliberale che nasce proprio dal fondo delle città. Ecco perché siamo così impegnati a lottare nei nostri municipi sul debito.
Se continuiamo ad assumere questa parziale prospettiva dell’“uso politico del debito”, il neoliberismo ci apparirà, tra le altre cose, come un ciclo economico-politico nel quale si è definitivamente consumato un passaggio di mano nel comando sul debito pubblico: dalla classe dei lavoratori a quella dei capitalisti. Il debito pubblico, da promessa di investimento futuro, è stato trasformato nel suo opposto, quale mezzo per tagliare le spesa pubblica, approfondendo il processo dello spossessamento e riaprendo continuamente campi per nuova accumulazione originaria. Si tratta del passaggio dallo Stato fiscale allo Stato debitore, per usare l’espressione di Wolfgan Streeck. Se si leggono gli economisti della Public Choice, alle origini del neoliberalismo americano, si trovano diversi segnali. Per esempio Buchanan, premio Nobel nel 1986, nel formulare le sue tesi sulla teoria dei “fallimenti del governo” scriveva anzitempo che la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio avrebbe limitato il potere coercitivo di alcuni gruppi di elettori.
Quando si passa dallo Stato-piano alla nuova forma-Stato del neoliberismo muta anche la forma della “domanda effettiva”. Cambia la benzina del “motore della crescita”: dalla spesa pubblica si passa alla domanda di consumo indebitata. Dal Keynes del “programma economico di Stato”, si passa ad un nuovo Keynes finanziarizzato, dove lo Stato è chiamato a regolare il corretto svolgimento della “molecolarità” della nuova “domanda effettiva”. Ogni epoca ha la sua forma di comando sulla crescita.
Ora, però, che siamo ancora piantati nel bel mezzo di questa “crisi infinita”, di questa “stagnazione secolare”, il comando del debito pubblico, a livello centrale come nelle città, diventa puro dominio, esercizio di pura violenza finalizzata allo spossessamento.
Ecco perché vale la pena insistere nelle nostre città, insieme ad altre lotte generali, sulla crescita delle esperienze di audit pubblico sul debito, intese come “istituzioni autonome del comune” in cui praticare forme di inchieste indipendenti sull’origine del debito delle città, presso le quali organizzare la lotta. È una delle strade per liberarci dal ricatto del debito pubblico e insieme immaginare nuove forme di programmazione economica delle città.
Fonte: dinamopress
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