
di Roberto Romano
La crisi economica che attraversa l’Europa potrebbe essere
interpretata nel più ampio e complesso quadro internazionale. Se
nel 2009 quasi tutti i paesi del mondo hanno registrato una violenta
contrazione del reddito, il Pil mondiale si riduce del 2% (Banca
Mondiale, 2015), l’intensità della crisi non è omogenea, così come le
policy adottate per affrontare gli effetti della caduta del reddito.
Solo per fare un esempio, gli Stati uniti hanno rafforzato la
domanda interna e il peso dell’economia pubblica, mentre l’Europa
continua l’austerità. Gli Usa riducono il tasso di disoccupazione
al 5,3%, ai minimi dal 2008, l’Europa annaspa nell’austerità
espansiva. Sono ormai 3 mesi che l’economia nordamericana crea più
di 200 mila posti di lavoro al mese.
L’unico effetto positivo, forse temporaneo, è un profondo
cambiamento negli orientamenti della ricerca nel campo
dell’economia, che con difficoltà comincia ad affermarsi. Infatti,
nel corso di questi ultimi 30 anni si è consolidata una “scienza
normale” che ha minato lo sviluppo di idee e ricerche che oggi
sarebbero utili per affrontare il tema della crisi (A. Roncaglia,
2011). La crisi iniziata nel 2007, esplosa tra il 2008 e il 2009, è un
evento che potenzialmente potrebbe concorrere a trovare nuovi
equilibri (superiori).
Un altro e fondamentale effetto delle crisi
è quello di ricostruire le istituzioni del capitale. Queste sono
cambiate o ridisegnate ogni volta che si è manifestata una crisi
strutturale o di struttura. Leon ricorda che c’è qualcosa di più
profondo e inedito in questa crisi: è l’inizio della fine di un
paradigma, più precisamente del paradigma Reaganiano-Thatcheriano
che ha costruito un particolare equilibrio tra Stato e capitale.
Le implicazioni di ordine economico e sociale sono enormi: cosa si
cela dietro l’eventuale esaurimento di questo particolare
paradigma? Quali sono i fenomeni sociali, economici e riproduttivi
del capitale che lo possono determinare? Il paradigma
(Reaganiano-Thatcheriano) ha la forza endogena per rigenerarsi
e quindi perpetuarsi? (Leon, 2014).
Il ruolo delle istituzioni per l’andamento della vita economica
è fondamentale, e all’interno delle economie di mercato esiste
una ampia varietà di assetti istituzionali. Inoltre, le
istituzioni del capitale cambiano ogni volta che si manifesta una
crisi di un certo rilievo. Nella recente storia economica possiamo
individuare cinque crisi strutturali (1972–1975; 1979–1982;
1988–1992; 1999–2002; 2007–2009). Sono crisi profonde che hanno
gettato le basi per una diversa regolazione delle istituzioni del
capitale, ma l’ultima crisi (2007–2009) si presenta come una crisi
strutturale, nel senso istituzionale del termine, e di struttura,
e l’impatto non è uguale per tutti i paesi. Per alcuni paesi
è opportuno utilizzare il termine recessione, per altri
rallentamento della crescita, e per altri ancora depressione. Non
è la crisi in quanto tale che può spiegare la forza-debolezza delle
aree economiche internazionali, piuttosto è la velocità delle
singole aree nel recuperare le posizioni reddituali
e occupazionali di inizio crisi a distinguere il posizionamento
internazionale delle stesse. Se consideriamo la crescita tra il
2007 e il 2014, la Cina cresce del 76,0%, il Brasile del 26,9%, la
Gran Bretagna del 6,3%, il Giappone del 3,1%, gli Stati uniti del
9,8%, mentre l’economia mondiale cresce del 17,3%. Diverso è il
posizionamento dell’area euro; nello stesso periodo cresce solo del
2,3%, cumulando un pericoloso ritardo rispetto all’economia
internazionale. Inoltre, all’interno dell’area euro convivono
paesi che sono in depressione (Italia e Grecia), in recessione
(Francia), ed altri ancora che manifestano una contrazione della
crescita (Germania). Quindi la crisi non è omogenea in tutte le
aree economiche, e all’interno delle stesse possiamo trovare
situazioni molto diverse.
C’è, però, un aspetto di politica economica abbastanza
importante nel recupero delle posizioni pre-crisi di molte delle aree
considerate: il rafforzamento della domanda interna come policy
per rafforzare la crescita del Pil. Difficile dire se sia l’effetto
della minore crescita internazionale o l’inizio di una nuova
politica economica che prelude a nuove istituzioni del capitale,
ma è oltremodo indiscutibile che in tutte le aree economiche,
Cina inclusa, il peso delle esportazioni come strumento per
consolidare e/o rafforzare la crescita economica si sia ridotto.
Solo l’area euro continua a immaginare la crescita economica
attraverso la capacità-possibilità di aumentare le esportazioni
internazionali. I dati raccolti sono abbastanza chiari a questo
proposito. Le partite correnti, in percentuale del Pil,
registrano degli avanzi-disavanzi contenuti con il passare della
crisi: la Cina passa dal 15% del PIL del 2008 al 2% del 2014; la
Federazione Russa dal 6% al 3%; il Giappone dal 3% all’1%. Solo
i paesi europei, tendenzialmente, aumentano il peso degli avanzi
commerciali per consolidare il Pil, con una anomalia (mondiale)
che potrebbe spiegare una parte dell’atteggiamento cinese, giapponese
e americano circa l’esito della crisi greca: la Germania aumenta
l’avanzo commerciale dal 5,6% del Pil del 2008 al 7,5% del 2014.
Il rallentamento della crescita economica degli ultimi 20 anni
e la crisi iniziata nel 2007, consegnano alla comunità una crisi che
è allo stesso tempo d’accumulazione, di domanda e regolazione. Le
misure intraprese sono diverse per paese e per area economica, ma
all’orizzonte sembra prefigurarsi un quadro di politiche che
puntano al sostegno della domanda, dell’accumulazione (attraverso
l’industrializzazione della ricerca per anticipare la domanda di beni
e servizi), unitamente ad una regolazione del sistema finanziario
(almeno) sufficiente per rallentare la finanza speculativa.
Queste politiche, così come le modalità e la tempistica di
attuazione, prefigurano delle istituzioni e delle economie
incoerenti con il precetto mainstream, almeno nei postulati
teorici, da cui, però, l’Europa non sembra capace di uscire. In
questo contesto l’Europa potrebbe diventare un vincolo
internazionale se continuasse a perpetuare politiche di
austerità, nella misura in cui non concorre a trovare una soluzione
condivisa alla crisi internazionale.
Fonte: il manifesto
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.