
di Marco Bascetta
Pochi giorni fa, incontrando fortunatamente una diffusa
resistenza, la Confindustria tedesca chiedeva di superare il
limite di 8 ore della giornata lavorativa, in nome della
flessibilità. E’ il segno inequivocabile di come la dottrina
della competitività non contempli alcun principio di
equilibrio o di autoregolazione. Non da ieri, numerosi
economisti sottolineano come l’avanzo commerciale e di bilancio
tedesco (8 per cento del Pil quest’anno) costituiscano per l’Europa
un problema ben più serio del debito greco. L’eccesso di risparmio
comincia a preoccupare perfino i vertici della Deutsche Bank.
Come è possibile che una economia fiorente si arrocchi nel
respingere qualsiasi ripresa della dinamica salariale, qualsiasi
miglioramento dei diritti e dei redditi del lavoro precario,
qualsiasi ripresa della spesa pubblica, tali da ridurre i fortissimi
squilibri che affliggono il Vecchio continente, oltre
a migliorare il livello di vita dei tedeschi?
A partire da questa
domanda, in molti lamentano un antigermanesimo di comodo che
imputerebbe a Berlino ciò che in realtà è l’essenza del
capitalismo globale. La Germania, insomma, sottostà, sia pure
con qualche eccesso di zelo e qualche specifica ossessione, alle
leggi del neoliberismo, non le crea.
Il pericolo non proverrebbe dunque da una ripresa del
nazionalismo tedesco (del tutto evidente nei toni del dibattito
pubblico in Germania) ma dalla dittatura dei mercati. Inutile
prendersela con una presunta vocazione storica della Germania al
comando. Se questa affermazione non teme smentite definitive, essa
contiene tuttavia una ingenuità e un pericolo. La prima consiste
in una idea del tutto astratta e disincarnata del mercato
(dimentica del fatto che quest’ultimo è un rapporto sociale con le sue
espressioni politiche) che non esisterebbe nelle forme attuali
senza i suoi interpreti “sovrani”, i suoi guardiani e i suoi retori.
Il successo di pubblico della politica teutonica in Europa deriva
dall’aver convinto i cittadini tedeschi a considerarsi in primo
luogo “azionisti” del ministero guidato da Wolfgang Schaeuble.
Il secondo risiede nell’insidiosa illusione che la sovranità
nazionale (e dunque il nazionalismo che frequentemente ne
discende) possa essere contrapposta alla globalizzazione
capitalistica, sia pure come argine parziale. L’illusione riverbera
sulla questione della moneta distinguendo tra paesi con la vocazione
all’export e paesi orientati al mercato interno. Gli uni favoriti,
gli altri svantaggiati dalla moneta unica. Fatto sta che non si tratta
affatto di “vocazioni”, o di “caratteri nazionali”, ma di rapporti
di forza tra le classi che non dipendono dall’appartenenza o meno
all’Unione europea e dai suoi trattati, come dimostra, per esempio,
l’esplosione dell’export made in China con le condizioni politiche
e poliziesche che la hanno resa possibile.
Il nazionalismo tedesco, dunque, è una delle condizioni del
meccanismo di accumulazione in Europa, tanto è vero che esso
è perfino in grado di riproporsi in una versione più federale
e integrata, che ha tra i suoi promotori lo stesso Wolfgang
Schaeuble, a condizione che la governance venga messa al riparo da
qualunque interferenza di carattere democratico e si attenga
strettamente alle regole date. Regole saldamente radicate nella
tradizione ordoliberale tedesca. Questa forma di integrazione
saprebbe avvantaggiarsi, inoltre, di uno sfoltimento dell’unione
monetaria senza nessuna perdita significativa di egemonia o di
sovranità, continuando a condizionare pesantemente le economie
europee sospinte ai margini dell’eurozona.
In queste condizioni un “atterraggio morbido” fuori dalla
moneta unica non è che il sogno malsano dei nostalgici della
sovranità nazionale. Il paracadute non si aprirà, come il governo di
Tsipras sembra avere intuito per tempo. Del resto, la stessa
alternativa tra la permanenza nell’euro o l’abbandono volontario
della moneta unica si presenta come una operazione di decisionismo
governativo, estraneo a qualsivoglia movimento di massa, come ci
suggerisce l’esigua minoranza di greci disposti a uscire
dall’euro. La messa in scena di una rivincita, del tutto illusoria,
della politica sull’economia, nel cui campo e secondo i cui schemi si
gioca per intero la partita.
Fuori dall’ eurozona, non meno che al suo interno, non c’è infatti
libertà di azione, c’è il terreno minato dell’economia globale. Di
fronte alla quale, sulla scala ridotta dello stato nazionale (perfino
la Germania è troppo piccola per il “grande gioco”), si aprono due
strade. O quella di uno sfruttamento intenso del lavoro e uno
smantellamento radicale dello stato sociale, se possibile ancor
più draconiano di quello preteso da Bruxelles, ma questa volta
sotto il segno infetto dell’“orgoglio nazionale”, per sostenere la
competitività, oppure la via del protezionismo,
dell’isolazionismo, delle politiche dirigiste di sviluppo
nazionale, degli ateliers natonaux e del lavoro fittizio. Per non
voler pensare a vere e proprie derive di natura autarchica.
Da destra e da sinistra vi sono in Europa diverse tendenze che
sembrano convergere verso simili esiti. Gli uni nella speranza di
restaurare un’idea forte di “Nazione”, gli altri nell’illusione che
questo passaggio conduca a una trasformazione in senso più
democratico e ugualitario della società. Questi ultimi muovono da
un tragico errore di fondo: il socialismo europeo non è fallito
perché si è convertito al neoliberismo, ma si è convertito al
neoliberismo perché era fallito. Perché il modello di stato, di
welfare, di lavoro, di identità singolari e collettive che esso
proponeva non corrispondevano più alle aspirazioni di
soggettività sociali profondamente trasformate. Se non si parte
da questo presupposto la partita con le promesse, sia pur
disattese, del neoliberismo è irrimediabilmente perduta.
E uno studio del Deutsches Institut fuer Wirtschaftsforschung
può trionfalmente rivelare che la grande maggioranza dei
lavoratori tedeschi, anche in condizioni di precarietà, bassi
salari e scarsi diritti, è ben contenta del lavoro che ha. Gli
insoddisfatti naturalmente esistono, ma sono pochi e di cattivo
carattere.
Fonte: il manifesto
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