
di Massimo Villone
Napolitano scende in campo e difende a spada tratta le riforme, nel metodo e nel merito, con una lettera al Corriere della Sera. Tutto bene, è impossibile tornare indietro, avanti tutta. In particolare sul senato non elettivo, visto come scelta imprescindibile. Capiamo bene che difendendo la proposta in discussione Napolitano difende se stesso, essendone stato da capo dello Stato artefice. Tutti ricordiamo le sue ripetute esternazioni sulle «necessarie riforme». E rispettiamo la sua scelta di interpretare come ha fatto il ruolo di presidente della Repubblica.
Vorremmo ricordasse, però, che l’interpretazione avrebbe potuto essere diversa. E che una parte non insignificante del paese pensa che avrebbe dovuto essere diversa. E che un senatore a vita ex presidente della Repubblica ha un onere di rappresentanza intrinsecamente più ampio di quello che cade su un qualsiasi uomo di partito, e di parte.
Vorremmo che Napolitano ricordasse che siamo già in campagna referendaria. L’ha lanciata Renzi, che anzi l’ha giocata dal primo momento come un plebiscito su se stesso. Come accade nelle corse ciclistiche, vediamo ora partire la volata, con l’occasione volta a mettere nell’angolo le voci dissidenti nella fase conclusiva dei lavori parlamentari. Vorremmo ricordasse che anzi sarà una battaglia plebiscitaria. Ne vediamo le argomentazioni rozze, semplificate, e qualcuno direbbe almeno in parte mendaci. Così accade quando Renzi dice che è cruciale togliere l’indennità ai senatori, senza dire che i costi diversi dell’istituzione — immobili, servizi, personale — rimangono comunque, e sono la parte di gran lunga prevalente. E che dunque maggiori risparmi si avrebbero riducendo in parallelo il numero dei componenti di ciascuna camera. Ancora è così quando si dice che un senato di seconda scelta è indispensabile a superare i bicameralismo paritario, occultando il fatto che bene – e anzi meglio — si potrebbe superarlo mantenendo l’elezione diretta dei senatori.
Vorremmo ricordasse da quale accordo, tra chi, e con quali motivazioni viene il progetto politico riformatore. Il famigerato patto del Nazareno, e già questo era per molti intollerabile. Il progetto politico è stato portato avanti tra forzature e violazioni dei regolamenti parlamentari e della stessa Costituzione. Il mantra è ora che non si può tornare indietro. Ma non si dice che quell’accordo non c’è più, che se la proposta di riforma va avanti può farlo solo con l’appoggio di transfughi il cui cambio di casacca nulla ha a che fare con il bene della Repubblica. Per tanti una Costituzione che nascesse su questi fondamenti non meriterebbe lealtà e osservanza. È così che si pensa di dare continuità e forza alla Costituzione nata dalla Resistenza?
Vorremmo ricordasse che — come ha ben visto negli anni bui del terrorismo — la tenuta di un paese viene dalla condivisione e dall’ampia partecipazione rese possibili dalla piena rappresentatività delle istituzioni. Viene dalla fibra morale e politica, prima che dalla forza pubblica. Dalla libertà degli animi e delle voci prima che dai bavagli, dalla compressione degli spazi di democrazia e di rappresentanza politica, dallo schiacciamento dei corpi intermedi.
Vorremmo ricordasse che il parlamento cui oggi si affida una radicale riscrittura della Costituzione è stato fulminato nei suoi fondamenti da una sentenza della corte costituzionale che ha posto precisi paletti. Per molti, la sentenza è stata già disattesa dalla legge 52/2015, ed è in sé grave. Ma ancor più grave è che un parlamento privo di legittimazione sostanziale capovolga alcuni dei fondamenti della Costituzione vigente, che tutti i parlamentari hanno il dovere di osservare esercitando le proprie funzioni con «disciplina e onore».
Vorremmo prendesse atto che altre soluzioni sono possibili. Una potenza globale come gli Stati uniti abbandonò un secolo fa il senato non elettivo, per porre fine a una situazione di degrado e corruzione. Oggi il senato elettivo del congresso statunitense è elemento di un sistema bicamerale sostanzialmente paritario, ed è ben più del senato di garanzia che intimorisce i riformatori italiani. La Francia sta progressivamente uscendo dalla commistione tra il senato e le istituzioni locali. E allora?
Vorremmo prendesse atto che il nucleo fondamentale del progetto di riforma è nella centralità dell’esecutivo e in proiezione nell’uomo solo al comando. Comunque, in una riduzione spazi di democrazia, e nella concentrazione del potere. Se non è così, perché non ci dice qual è invece il punto focale del disegno riformatore? Mattarella, nel chiamarsi fuori dalla mischia, ci ha detto che l’uomo solo al comando non esiste. Oggi, forse. Ma domani?
Vorremmo capisse che lo slogan avanti a tutta forza può solo peggiorare le condizioni del confronto politico. Perché non rimane altra via che radicalizzare le posizioni. Ancor più se i capi di stato abdicano dal proprio ruolo di garanti delle Costituzioni. Del resto, il sospetto l’avevamo, che le costituzioni le difendono i popoli, non i governi o i capi di stato.
Infine, a chi pensasse con le scelte di oggi di acquisire un busto nel pantheon della nuova Repubblica, vogliamo ricordare che la grande ruota della storia gira. I meno giovani hanno in memoria le immagini in bianco e nero dei busti dell’uomo solo al comando abbattuti e in frantumi. Questa volta le vedrebbe tutto il mondo, a colori e su Youtube.
APPROFONDIMENTO - Uno Scalfaro al rovescio
di Andrea Fabozzi
La campagna per l’ultimo referendum su una legge di revisione
costituzionale, nel 2006, fu guidata da un ex presidente della
Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, che sette anni dopo aver lasciato il
Quirinale si mise alla testa del comitato del No ed ebbe successo:
la riforma di Berlusconi fu bocciata.
Adesso la riforma di Renzi è ancora lontana, al più presto il
referendum confermativo potrebbe tenersi alla fine dell’anno
prossimo, ma la campagna elettorale è già cominciata. Si candida
a guidarla, stavolta per il Sì, Giorgio Napolitano. L’ex
presidente — ex da sette mesi — ha scritto ieri una lettera al
Corriere della sera che diventerà il manifesto dei sostenitori del
disegno di legge Renzi-Boschi. «Non è pensabile si torni indietro»,
è lo slogan che riassume il pensiero del senatore a vita.
L’autorevolezza è maggiore, ma gli argomenti di Napolitano sono
quelli tante volte ripetuti dalla ministra Boschi e messi in fila
mercoledì nella sua relazione dalla presidente della prima
commissione Finocchiaro. La scelta per il senato che rappresenta le
istituzioni territoriali è fatta, il «conseguente
e ineludibile corollario» sarebbe «l’esclusione di una elezione
dei futuri senatori a suffragio diretto e con metodo proporzionale».
Napolitano non evita le forzature tipiche della campagna
elettorale, come quella tipicamente renziana di legare la fine del
bicameralismo paritario alla rinuncia all’elezione diretta dei
senatori. Ma nella foga finisce col polemizzare direttamente con
il presidente del senato, quando definisce «insostenibile» la
proposta di «un’immaginario senato delle garanzie».
Cioè proprio quello che Grasso aveva sostenuto giusto una
settimana fa, nel discorso del Ventaglio: «Penso che l’Italia abbia
bisogno di un senato di garanzia, come avviene in molte altre
democrazie». Il contrasto è troppo evidente (e lo coglie qualche
esponente dell’opposizione) e così persino il senatore a vita deve
fare una precisazione: «Vedere un riferimento polemico con il
presidente del senato è un abbaglio se non una gratuita
alterazione dei fatti», si arrabbia Napolitano.
Ma la precisazione dice troppo: «Nel merito delle questioni
procedurali che riguarderanno il momento del passaggio alle
votazioni finali sulla riforma costituzionale — si legge nella nota —
il presidente Napolitano non è mai entrato e non intende entrare».
È il punto più delicato, perché proprio Grasso dovrà decidere
sull’ammissibilità degli emendamenti che puntano a riaprire
l’articolo 2 della riforma costituzionale, per recuperare
l’elezione diretta dei senatori. Già Anna Finocchiaro aveva mandato
un avvertimento alla seconda carica dello stato, chiedendo cautela,
ma è chiaro che il peso dell’ex capo dello stato può essere maggiore.
È lo stesso peso che Napolitano ha messo sul piatto delle riforme
costituzionali soprattutto durante l’attuale legislatura, negli
interventi pubblici e non solo, come ricorda lui stesso nella lettera
al Corriere quando fa notare che il senato non elettivo è stato
«ampiamente concordato in molteplici occasioni e luoghi
istituzionali negli ultimi anni».
Qualche senatore del Pd — Bindi, Ricchiuti, Lo Moro, Corsini —
dichiara di non condividere le parole di Napolitano, ma per il
resto è un coro di elogi. Il capogruppo Zanda richiama i pochi
dissidenti: «Credo che il Pd debba condividere questo richiamo».
Ma oggi in prima commissione scade il termine per la presentazione
degli emendamenti e arriveranno anche quelli della minoranza dei
democratici.
Ci sarà l’emendamento all’articolo 2, per tornare all’elezione
diretta dei senatori in contemporanea con le elezioni regionali.
Il senatore Vannino Chiti è convinto che debba essere ammesso «forse
non tutti hanno capito che l’articolo 2 andrà comunque corretto
e bisognerà tornare a votarlo in aula». Gli altri emendamenti della
minoranza riguardano l’elezione del presidente della Repubblica
(allargare la platea e alzare i quorum), l’elezione dei giudici
costituzionali (riservarne due al senato, su questo c’è accordo
generale) ma anche questioni meno battute come l’immunità
parlamentare. La proposta della minoranza Pd era già stata fatta
nelle precedenti letture: passare la competenza alla Consulta
(una recente scoperta, «a titolo personale», del ministro Orlando).
Sel presenterà un migliaio di emendamenti, con le stesse
proposte ma anche con il tentativo di arrivare all’elezione diretta
dei senatori passando per altri articoli della riforma, per esempio
dove si stabiliscono le funzioni delle camere o nelle
disposizioni transitorie. Sull’ammissibilità si deciderà
a settembre. Renzi, sull’onda di Napolitano, chiude già ogni
spazio: «La presentazione di questi emendamenti non cambia
niente, si voteranno e vedremo chi ha numeri». Ci sono emendamenti
con 28 firme Pd, sufficienti a mandare sotto il governo. Con tre
senatori della minoranza in commissione, il governo non ha i numeri
neanche in sede referente.
Un problema che si è già presentato e che è stato risolto
imponendo la sostituzione dei commissari dissidenti. Altre volte
la commissione è stata invece saltata, con la scusa dei troppi
emendamenti. Questa volta Calderoli ne ha annunciati 105mila.
Fonte: il manifesto
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