
di Piero Bevilacqua
Del fitto decalogo che Norma Rangeri
ha proposto alla discussione pubblica privilegerei solo pochi temi, ma
tutti curvati ai bisogni fondativi di quell' organismo politico cui la
sinistra aspira da tempo.
E tuttavia partendo
da una considerazione generale. Non pochi si stupiscono, che proprio in
Italia, malgrado i ripetuti tentativi, non riesca a prender forma una
forza politica di sinistra simile a Syriza o a Podemos. Si stupiscono
che ciò accada proprio nel Paese che ha visto nascere e prosperare il
maggiore partito comunista dell 'Occidente. E invece proprio in questa
storia, in questo passato di successo, si trova almeno una ragione delle
presenti e sinora sovrastanti difficoltà. Più grandi e sontuosi sono i
monumenti, più ingombranti le macerie che il loro crollo dissemina. Da
noi, a sinistra, non c'è uno spazio vuoto in cui edificare. Ci sono i
resti del PCI, gruppi dirigenti che sopravvivono alla sua storia dentro
il PD e che da riformatori moderati conservano legami di consenso con
settori popolari e di ceto medio della società italiana. Gruppi che oggi
stemperano il neoliberismo riverniciato e senza prospettive del governo
Renzi. Poi ci sono i tronconi sopravvissuti alle scissioni multiple:
SEl, Rifondazione comunista, quel che resta de L'altra Europa con
Tsipras e altre formazioni più o meno pulviscolari. Infine la galassia
dei movimenti e delle associazioni con i loro leader.
Se dovessi condensare la situazione presente in una immagine, ricorrerei alla metafora che gli illuministi meridionali del XVIII secolo utilizzarono per rappresentare Napoli nel territorio del Regno: una grande testa su un corpo fragile.
La sinistra politica italiana è tutta testa e quasi priva di corpo. E' una costellazione di dirigenti e di gruppi intellettuali senza popolo. Si tratta di un grande patrimonio che nessun Paese d'Europa, forse neppure la Francia, oggi può vantare, ma che rischia di esaurire la propria azione in un'opera di impotente testimonianza. E' evidente, dunque, che se tutti sono dirigenti essi portano oggi una responsabilità enorme. Ad essi spetta fare le mosse, prendere le iniziative che possono aggregare le forze, trovare il cammino dell'unità, capace di rovesciare l'attuale dispersione in un aggregato largo e potente.
Se dovessi condensare la situazione presente in una immagine, ricorrerei alla metafora che gli illuministi meridionali del XVIII secolo utilizzarono per rappresentare Napoli nel territorio del Regno: una grande testa su un corpo fragile.
La sinistra politica italiana è tutta testa e quasi priva di corpo. E' una costellazione di dirigenti e di gruppi intellettuali senza popolo. Si tratta di un grande patrimonio che nessun Paese d'Europa, forse neppure la Francia, oggi può vantare, ma che rischia di esaurire la propria azione in un'opera di impotente testimonianza. E' evidente, dunque, che se tutti sono dirigenti essi portano oggi una responsabilità enorme. Ad essi spetta fare le mosse, prendere le iniziative che possono aggregare le forze, trovare il cammino dell'unità, capace di rovesciare l'attuale dispersione in un aggregato largo e potente.
Ora sono almeno due
i problemi fondamentali che questi gruppi dirigenti ormai consapevoli
della situazione drammatica cui siamo giunti, in Italia e nel mondo,
debbono affrontare. Uno riguarda la necessità di dare gambe robuste alla
grande testa, in maniera di consentire non solo al corpo di camminare,
ma alla testa stessa di pensare in maniera adeguata alle sfide presenti.
C'è un unico modo di munire la testa di gambe, che è quello di
andarsele a cercare. Esiste in Italia una questione più grave della
condizione giovanile? Disoccupazione al 44%, precariato, lavoro in nero,
gratuito, aumento delle tasse universitarie, sbarramento degli accessi,
decurtazione delle borse di studio, ecc.Ma non basta gridare contro le
precarietà.Occorre andare dove essa si genera, parlare con i lavoratori ,
farsi raccontare i loro problemi, ascoltare le loro idee. La proposta
del reddito minimo o di cittadinanza, che io chiamerei il reddito di
dignità, è arrivata nelle commissioni del Parlamento. Ma i dirigenti
sono mai andati nelle scuole, nelle Università, nei luoghi pubblici a
spiegare le ragioni della proposta? Eppure non solo è indispensabile
mobilitare i soggetti sociali interessati per vincere questa battaglia, è
anche necessario conquistare alla militanza forze giovani, in grado di
dare nuove energie alla lotta politica. Almeno un paio di generazioni
sono state annichilite dal modello capitalistico che domina da
trent'anni. Le lasciamo nel loro limbo, oppure offriamo loro almeno una
prospettiva politica?
Questo bagno
sociale dei dirigenti si rende necessario per un'altra ragione. Essi
debbono sapere che non basta dire “cose di sinistra” per ottenere
consenso. Anche i dirigenti di sinistra oggi sono percepiti dalla grande
maggioranza degli italiani come membri del numeroso esercito del ceto
politico, con gli stessi privilegi, ma con l'aggravante di essere deboli
e minoritari. Non importa la loro storia, il loro personale
disinteresse.E' così.Occorre dunque che essi compiano tutte le
operazioni necessarie per liberarsi di questa ingombrante divisa che li
fa somigliare a tutti gli altri.
L'altro grande
problema da affrontare riguarda la costruzione e il mantenimento
dell'unità della dirigenza in presenza di una così marcata difformità,
di posizioni,vedute, storie personali, ecc In questo nodo si concentra
la nostra più grande sfida, decisiva per uscire dall'impotenza a cui
sembriamo condannati. Occorre non soltanto organizzare un gruppo
dirigente trasparente e controllabile dalla base, capace di ascoltare le
voci che vengono dal basso, ma trovare soprattutto il modo di far
coesistere il dissenso interno con le scelte della maggioranza.
Discussione, decisione, ma anche condivisione del progetto unitario
anche da parte di chi dissente. Un tempo tale risultato si otteneva – ad
esempio nel vecchio PCI, che ereditava in parte il modello leninista –
con la disciplina del cosiddetto centralismo democratico, grazie al
collante semireligioso dell'ideologia, ma anche, diciamo la verità, in
virtù di quell'amalgama di autoritarismo burocratico e passività
conformistica dei militanti che caratterizzava in genere i partiti di
massa. Oggi questo non è più possibile. Ogni testa pensa da sé. E' la
ricchezza culturale e la tragedia politica del pluralismo. E non c'è
altra strada per domare tale disordinata potenza della modernità che la
sapienza politica delle regole. Occorrono regole chiare e ben pensate
fin da subito, per far coesistere le diversità e rendere fisiologici,
puro dinamismo di crescita, i conflitti interni. Circolarità delle
cariche, criteri elettorali interni e di accesso alla rappresentanza,
regole di disciplinamento dei rapporti con le istituzioni o con le
società private, uso delle risorse, ecc. E soprattuto stabilire le basi
minime di un'etica del dissenso. I dirigenti, proprio perché spesso
lontani dai comuni cittadini, neppure immaginano quali ferite provochino
nell'animo di militanti ed elettori i loro gesti di disaccordo
sbandierati ai quattro venti. Ciò che il popolo della sinistra non
tollera è la divisione delle forze politiche che pretendono di
difenderlo dai grandi poteri capitalistici.Se si è divisi si è deboli e
si va incontro alla sconfitta. Certo, il pudore del silenzio, in caso di
dissenso, non si può imporre per decreto. Ma occorrerebbe far di tutto
per farlo diventare un valore, supremo e distintivo, dell'essere di
sinistra.
Fonte: il manifesto
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