
di Roberta Biasillo
Fa riflettere il modo in cui i principali quotidiani del nostro
Paese guardano all’immigrazione. Anche Ernesto Galli Della Loggia sul
Corriere della Sera del 2 agosto («Sui migranti non servono sermoni»),
pur tentando di rispondere alla critiche di chi protesta contro
gli sbarchi e la nostra accoglienza, ritorna su un luogo comune,
quello dei costi eccessivi della loro gestione, invocando
addirittura il principio di uguaglianza tra migranti e italiani.
Il ragionamento è: l’Italia ha un’elevata disoccupazione e un
livello crescente di povertà, è giusto concedere, alcune
provvidenze a rifugiati e richiedenti asilo piuttosto che
aggiungerne altre agli italiani? La soluzione avanzata è quella di
erogare agli enti che si occupano di questi migranti un ammontare di
beni e servizi pari a quelli che spendono nell’integrazione. Tale
erogazione, per sortire gli effetti migliori, dovrebbe concludersi
in tempi brevi e dovrebbe essere gestita dal governo centrale.
Riflettendo su questa visione qualcosa non torna. Siamo sicuri che
la nostra disoccupazione e le politiche dell’accoglienza siano in
contraddizione e non possano dialogare? È pensabile che
i territori che attuano progetti di inclusione non siano ripagati,
anche in termini economici, dalle attività che i progetti stessi vi
pongono in essere? Non sono forse un investimento piuttosto che un
onere? In realtà, guardando alle modalità attraverso le quali si
struttura l’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati, quella più
riuscita va in direzione opposta a quanto proposto da Galli Della
Loggia e si ispira al principio di progettualità a medio o lungo
termine e al protagonismo degli enti e delle associazioni locali.
Che i migranti siano quel corpo estraneo che utilizza le nostre tasse
è una retorica costruita da chi considera l’immigrazione una specie
di zona rossa. Si veda quanto ha scritto su questo giornale il 30 luglio Alessandro Portelli.
Esistono presunte zone rosse dell’accoglienza in Italia, si
chiamano Cara, Cda, Cpsa e Sprar, i primi tre sono centri
governativi e l’ultimo è una rete di progetti territoriali.
Secondo i dati ministeriali aggiornati al 15 maggio 2015 gli
stranieri inseriti nei circuiti italiani dell’accoglienza, volti
quindi al riconoscimento dello status di rifugiato o del
diritto di asilo, sono 73.705 e la spesa giornaliera ammonta a circa
2,6 milioni di euro. È difficile avere un’idea esatta dei costi che
queste strutture assorbono per la varietà dei programmi e per il
concorso di finanziamenti europei, locali e nazionali, ma si
possono tentare stime più puntuali facendo riferimento al sistema
Sprar, caratterizzato proprio dalla trasparenza della
rendicontazione.
Sempre secondo i dati del Ministero dell’Interno sul territorio
nazionale sono attivi 428 progetti afferenti appunto al Sistema di
Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati, ai migranti spettano
2–2,5 euro al giorno e il resto delle risorse, poco più di 30 euro al
giorno per migrante, finanzia un indotto virtuoso.
Sull’indotto virtuoso che questi interventi di accoglienza
integrata riescono a mettere in moto vale la pena soffermarsi.
Prima di tutto non sono una imposizione del Governo centrale, ma sono
gli enti locali a richiedere su base volontaria di prendervi parte;
in secondo luogo puntano alla promozione e allo sviluppo di reti
e sinergie locali; infine si tratta generalmente di piccoli gruppi
di migranti inseriti in piccoli centri e di percorsi di
inserimento socio-economico il più possibile particolareggiati.
Distogliamo un attimo la nostra mente dal percepire l’immigrazione
come un fenomeno di massa drenante risorse pubbliche, come sacche
di umanità parallela e guardiamo i numeri: circa 74.000 richiedenti
accoglienza attualmente seguiti (stima per eccesso) su una
popolazione di circa 60 milioni di persone (stima anche questa per
eccesso); 8.092 comuni di cui il 70,5% con meno di 5.000 abitanti e con
fenomeni di spopolamento, impoverimento e invecchiamento
relativo della popolazione residente; tasso di disoccupazione
nazionale pari al 12,7% e crollo della domanda di lavoro qualificato.
Mettendo insieme questi elementi trovare un spazio condiviso
e non conteso, una zona permeabile e non rossa è possibile e gli
Sprar ne sono un esempio. Essi rappresentano nei piccoli centri
una risposta alla crisi occupazionale e di modello insediativo ed
economico, generando richiesta di lavoro altamente qualificato
(mediatori culturali, insegnanti, istruttori, psicologi),
portando vitalità in centri storici in semi-abbandono, riscoprendo
attività legate al territorio e fornendo nuova manodopera per le
botteghe artigiane. È nei piccoli centri che l’integrazione può
tornare a dimostrare il suo essere una dinamica interpersonale
naturale.
Ad oggi è il Mezzogiorno – quello che lo Svimez ha appena
descritto come esposto a un serio rischio di «sottosviluppo
permanente» – a contribuire maggiormente con risorse, spirito di
accoglienza e professionalità
e sono invece le grandi città e alcune Regioni del Nord, quali la
Lombardia, la Liguria, il Veneto e la Val d’Aosta, a diffidare gli
enti locali dal perseguire qualsivoglia pratica di inserimento.
C’è una ulteriore riflessione da fare sul sistema di protezione
in esame e riguarda la dimensione progettuale degli interventi.
Questa va a minare un’altra retorica legata all’immigrazione, quella
dell’emergenza. La pianificazione è universalmente riconosciuta
come uno strumento economico importante, fondamentale nel
guidare lo sviluppo territoriale ma in materia di immigrazione
acquista anche altri risvolti per nulla secondari, quali la tutela
delle procedure democratiche e la possibilità di controllo
pubblico. Alcune esperienze mostrano come un modello di inclusione
sociale diverso e legato alle vocazioni territoriali sia possibile
e incrementabile, un modello lontano dai riflettori mediatici
(che raccontano solo storie di tensioni e razzismo) e al riparo
dalla corruzione della cattiva politica e dalla speculazione di
affaristi senza scrupoli.
L’immigrazione in Italia, fuori dalla solita retorica, può
diventare una opportunità di rinascita sociale, di ridefinizione
in positivo della geografia economica e di elaborazione di un
discorso pubblico ispirato al rispetto della dignità umana e dei
valori della Repubblica.
Fonte: il manifesto
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