
di Mario Pierro
La riforma della pubblica amministrazione è stata approvata ieri
in maniera definitiva dal Senato grazie alle opposizioni. Il
governo Renzi è stato graziato da Forza Italia che ha votato contro
il provvedimento, garantendo il numero legale. Se i voti a favore
sono stati 145, 97 sono stati quelli contrari, senza astenuti. Se
qualcuno avesse voluto fare male a Renzi – che ieri dal Giappone ha
esultato a modo suo «abbracciando i gufi» via twitter – sarebbe
bastato votare contro e l’esecutivo si sarebbe schiantato contro il
muro del numero legale: 150 i voti necessari. Così non è stato e il
parlamento ha dato carta bianca al governo di fare quello che gli pare
con le 15 deleghe contenute in una legge composta da 23 articoli.
Dentro c’è di tutto: al governo è stata delegata la riscrittura
del testo unico sul pubblico impiego che interverrà sulla
«responsabilità» dei dipendenti pubblici, cioè dovrà rendere
concreta la possibilità di condurre a termine le azioni
disciplinari; modificherà il ruolo dei dirigenti vincolandoli
ancora più strettamente alla politica, resteranno in carica quattro
anni, più due di proroga, e dovranno accettare il demansionamento
a funzionari, all’occorrenza. In caso contrario saranno licenziati.
La legge rafforza oltre modo i poteri di intervento della
presidenza del consiglio nell’ambito delle contese tra le
amministrazioni centrali che riguardano la tutela paesaggistica
e la salute. Sarà il presidente del consiglio a decidere, sentito
il parere formale del consiglio dei ministri. Poteri rafforzati
anche sulla riorganizzazione degli uffici dei ministeri sui quali
Renzi, o chi per lui, potrà intervenire.
Nei decreti delegati, che saranno presentati da settembre, il
governo potrà intervenire su una voce importante della ex-spending
review voluta dall’ex commissario Carlo Cottarelli: la riduzione
delle partecipate. La decisione di ridurle da «8 mila a mille» verrà
presa nelle segrete stanze di palazzo Chigi. Se sarà presa. Le
prefetture saranno riorganizzate, e non ce ne sarà più una per
provincia. Nascerà l’ufficio territoriale unico dello Stato.
Continua nel frattempo l’opera di riduzione delle camere di
commercio vagheggiata sin dai tempi di Monti: saranno tagliate da 105
a 60. Confermata la cancellazione del Corpo forestale che sarà
assorbito in un’altra polizia, si ritiene dai Carabinieri. Tra
i molti dettagli-spot di una legge-lenzuolo c’è il wi-fi obbligatorio
per gli uffici pubblici, scuole e biblioteche. Dopo la chiusura,
diventeranno hot-spot per la cittadinanza; la possibilità di
pagare via app multe fino a 50 euro; stop a 113, 118 e 115, previsto
un unico numero per le emergenze, il 112. Introdotto la
profilazione per ogni cittadino che avrà una carta digitale.
Se dal lato Pd si festeggia la «modernizzazione» praticata
dalla riforma (Piero Fassino, sindaco di Torino e presidente Anci),
a dir poco critici sono i sindacati del pubblico impiego. Il fuoco
della loro critica resta l’assenza di ogni riferimento al contratto
di lavoro nazionale, e quindi alla qualità e alla retribuzione dei
dipendenti. In una nota congiunta Fp-Cgil, Cisl-Fp, Uil Fpl e Uil-Pa,
la «riforma anti-gufi» di Renzi viene definita «illusoria». Non è con
nuove norme che si cambierà la P.A. In compenso la cosiddetta
«riforma Madia» (dal nome della ministra deputata) «riduce gli spazi
di negoziazione e inasprisce i controlli di merito
e compatibilità economico-finanziaria dei contratti» Non investe
sulle professionalità, ma le disciplina e pensa, eventualmente,
a punirle. «Il governo mantiene una Pa autoreferenziale — scrivono
i segretari di categoria Dettori, Faverin, Torluccio e Turco —
volutamente disorganizzata. Vogliamo il rinnovo del contratto
subito».
Dal fronte politico delle opposizioni, Loredana De Petris (Sel)
approfondisce la critica alla conferenza dei servizi e al
«silenzio-assenso»: «Questa riforma sacrifica la terzietà della P.A.,
la trasforma in una piramide la sacrifica al potere politico.
è l’esatto opposto di quello che bisognava fare».
Fonte: il manifesto
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