di Francesca Garisto
Negli ultimi 30 anni i termini entro cui si è svolto il conflitto sociale nel secolo scorso sono stati completamente ridefiniti. Da un lato, con la creazione della nuova classe dei lavoratori precari, privata dei temi di lotta tradizionalmente attribuibili alla classe lavoratrice della seconda metà del ‘900, come quelli del diritto al lavoro e della conflittualità di classe; dall’altra, con la progressiva erosione dei diritti dei lavoratori subordinati, che ancora a quei temi di lotta politica potrebbero fare riferimento. Nell’ambito di un quadro politico che è indiscutibilmente mutato, a causa, tra l’altro, di una politica che con sorprendente perseveranza e con il supporto di massicce campagne mediatiche, ha fatto breccia nella cultura popolare e operaistica, sono state predisposte le condizioni per avviare una stagione di riforme “lacrime e sangue”.
D’altro canto, con l’adozione da parte delle socialdemocrazie europee dei simulacri della flessibilità e della immigrazione, negli ultimi decenni è mutato anche il modo in cui l’opinione pubblica si avvicina al tema delle rivendicazioni e delle lotte dei lavoratori.
Se infatti fino alla metà degli anni 70 ragioni politiche e culturali spingevano la coscienza sociale a indulgere rispetto a forme anche aspre di lotta sindacale, caratterizzate da occupazioni, ostruzionismi e dai cosiddetti “picchettaggi”, negli anni successivi, complici le circostanze di cui sopra, il contesto sociale è cambiato, fino ai giorni nostri, in cui le campagne mediatiche rilanciano la necessità di una “stretta” della legislazione antisciopero.
Il mutato contesto culturale ha infatti prodotto i suoi effetti anche in seno alla magistratura, che sempre più frequentemente iscrive procedimenti penali nei confronti dei lavoratori che partecipano a scioperi e picchettaggi, anche nel settore privato. Gli strumenti giuridici offerti dal codice penale non mancano.
Con particolare riferimento al “picchettaggio”, l’ipotesi di reato che viene astrattamente in rilievo è quella di violenza privata, prevista dall’art. 610 c.p. Occorre appena sottolineare che in tale ipotesi ricorre la necessità di bilanciare la tutela di contrapposti beni giuridici, tutti di rilievo costituzionale: da un lato, il diritto di sciopero sancito dall’art. 40 della Costituzione, esercitabile solo in forma collettiva, dall’altro i diritti individuali: diritto alla vita, all’incolumità personale e alla libertà di iniziativa economica, tutelati in questo caso dall’art. 610 c.p.
Va rilevato che all’aumento del numero dei procedimenti penali iscritti nei confronti di lavoratori scioperanti in casi di picchettaggio, non corrisponde altrettanta inflessibilità da parte della magistratura giudicante. La giurisprudenza giunge infatti a risultati differenti a seconda che si tratti di condotte aggressive dell’incolumità fisica altrui, di condotte di mera propaganda o persuasione, o infine di ostruzione degli ingressi sul luogo di lavoro mediante l’apposizione di oggetti ingombranti o di barriere umane costituite dai corpi degli scioperanti.
A tal proposito, se nella prima ipotesi è pacifica la configurabilità dell’art. 610 c.p. per la presenza di condotte certamente qualificabili come violente, nel caso di condotte di mera propaganda, pur se energiche e persistenti, l’assenza di coazione nei confronti dei dissidenti, non scioperanti, ha indotto certa giurisprudenza a ritenere la condotta “scriminata” dall’art. 51 c.p., che tutela, tra l’altro, l’esercizio del diritto di sciopero previsto dall’art. 40 della Costituzione.
Più problematiche appaiono invece le condotte di ostruzione degli ingressi sul luogo di lavoro attraverso l’apposizione di oggetti o la formazione di barriere umane costituite dai corpi degli scioperanti. Infatti, se alcune pronunce della Corte di Cassazione hanno qualificato le condotte ostruzionistiche come “violenza”, in considerazione del carattere coattivo della condotta, una parte cospicua della giurisprudenza, soprattutto di merito, si è discostata da tale orientamento, invocando ancora una volta la scriminante del diritto di sciopero ai sensi degli artt. 51 c.p. e 40 della Costituzione.Si può quindi, in conclusione, affermare che la sola ipotesi di picchettaggio senza dubbio riconducibile al reato di violenza privata, è quella che si realizza attraverso condotte aggressive dell’incolumità fisica di coloro intendono recarsi nei luoghi di lavoro nonostante lo sciopero.
Negli altri casi, e soprattutto in presenza di condotte di ostruzione degli ingressi sui luoghi di lavoro mediante il ricorso a barriere umane o costituite da oggetti vari, la giurisprudenza è ancora divisa tra il riconoscimento della sussistenza del reato di violenza privata e l’irrilevanza penale della condotta, sia per mancanza del requisito della “violenza” richiesto dalla norma, sia per carenza di antigiuridicità, trattandosi dell’esercizio del diritto di sciopero, costituzionalmente garantito.
Nonostante pertanto la posizione di buona parte dei media, che quotidianamente assecondano la politica che pretende di intervenire sulle inefficienze del sistema produttivo con una specifica legislazione antisciopero, oltre a un numero sempre crescente di procedimenti penali iscritti nei confronti di lavoratori scioperanti che realizzano condotte di “picchettaggio”, nelle aule di giustizia penali non si è ancora giunti a una soluzione chiarificatrice.
Ciò nondimeno, in previsione dei conflitti che inevitabilmente si moltiplicheranno nei prossimi anni a causa delle politiche economiche restrittive imposte dagli organismi politici (e non) nazionali e sovranazionali, si auspica che la presa di coscienza emersa in occasione della recente tornata referendaria possa estendersi anche ai temi riguardanti il diritto al lavoro, al fine ristabilire l’equilibrio fra le contrapposte forze sociali, nello spirito solidaristico della Costituzione.
Fonte: Il Fatto Quotidiano
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