di Gianni Ferrara
Erano tre le incostituzionalità di immediata e sfacciata evidenza dell’Italicum. Al ballottaggio che tale sistema elettorale prevedeva e che è stato soppresso, si aggiungevano (e si aggiungono) sia il premio (per di più esorbitante) del 14 per cento dei 630 seggi della Camera a quella lista che avesse ottenuto il 40 per cento dei voti, sia la nomina a deputati dei capilista (e dei secondi di lista) da parte dei capipartito delle liste che ottenevano seggi all’elezione della Camera dei deputati. Questo terzo vizio è stato solo ridotto, ma non sanato. È stato invece conservato il cosiddetto premio di maggioranza. Non se ne comprende il perché (che è difficile che ci sia).
Leggeremo la sentenza ma, per ora, non ci convince affatto il rigetto dell’eccezione di incostituzionalità del “premio”.
Non ci convince proprio partendo dalla incostituzionalità, accertata dalla Corte, del ballottaggio per i 340 seggi tra liste che avessero ottenuto anche una bassissima percentuale di voti al primo scrutinio ed anche al secondo, incostituzionalità clamorosamente evidente. Ma lo è perché un meccanismo di tal tipo contraddice la misura del consenso. La misura cioè di quanto è necessario, indefettibile, inalienabile ed incomprimibile in democrazia per l’esercizio del potere. Tanto più se potere normativo, che riguarda quindi lo status di cittadino, i suoi diritti, le sue pretese, i suoi doveri, i suoi obblighi, i suoi oneri.
Non va mai dimenticato, eluso, rimosso, taciuto, sminuito il nucleo duro dei sistemi elettorali, che è quello del consenso numerico certo, da cui deriva la maggioranza reale da accertare a sua volta in modo incontrovertibile, non manipolandola, non falsificandola sostituendo numeri e gonfiando somme.
Se si qualifica negativamente la quantità del consenso espresso col voto in caso di ballottaggio tra liste con ridotto numero di voti sia al primo che al secondo turno ad ogni fine giuridicamente rilevante, deve non diversamente rilevare la quantità del consenso, se si tratta di voti ottenuti da una lista che consegua il 40 per cento dei voti all’elezione della Camera dei deputati. Quale magia espande nell’ordinamento costituzionale italiano, nei rapporti interpersonali, nel futuro dell’italica gente, quel 40 per cento, resta un arcano.
Forse no. Fu del 40 per cento il numero dei voti conseguiti, alle ultime elezioni al Parlamento europeo, dalla lista del Pd. Il 40 per cento dei voti si attribuì in quell’occasione l’ex Presidente del Consiglio Renzi. Che ritenne, con ogni probabilità, che fosse fatale quel numero per lui e ineluttabile per i suoi luminosi successi. Non aveva, invece, e non poteva aver altro ruolo, quel numero, che quello di rivelare la distanza che lo separava e lo separa da quella metà più uno che segna, da sempre, la maggioranza numerica dei voti di ogni aggregata pluralità umana.
Conseguire un numero di voti che si avvicina a quella metà, significa solo che la maggioranza reale, quella vera ha negato a quella più ambiziosa minoranza il potere della metà più uno.
Sovviene un raffronto cui segue una riflessione.
È del 40,89 per cento il numero dei sì al referendum del 4 dicembre contro il 59,11 dei no. Con questo risultato il corpo elettorale ha respinto la legge costituzionale che sconvolgeva l’ordinamento parlamentare della Repubblica, una legge della massima rilevanza costituzionale, certo, ma comunque una legge, una sola legge.
E ora una domanda: un risultato di tal tipo può essere rovesciato, quanto ad effetti, per legittimare una maggioranza parlamentare, un legislatore per cinque anni ? Il 40 per cento di una lista sola o anche di più liste collegate può legittimare l’acquisizione di 340 seggi parlamentari? Tanti quanti necessari – si pretende – per assicurare la governabilità secondo i suoi pasdaran?
A quanto ammonta, di grazia, il costo della governabilità imposto alla democrazia? A quanto ammonta inoltre il prezzo della personalizzazione del potere per la nomina a deputato dei capilista anche se lasciano alla sorte di optare per il collegio di derivazione?
Or son pochi mesi, riconobbi alla Corte costituzionale il merito esclusivo di garante della Costituzione. La legittimazione del premio di maggioranza mi induce ora a riflettere su quel giudizio.
Fonte: Il manifesto
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