di Alessandro Somma
Renzi verrà ricordato per la veemenza con cui si è rivolto all’Europa per contestare la sua politica di austerità, e soprattutto per aver mostrato tutto il suo fastidio ai tedeschi: i mandanti di quella politica. Ci ricorderemo però di lui anche per la sua bravura ad abbaiare, unita alla sua incapacità di mordere. Le sue rumorose dichiarazioni sulla cecità dei tecnocrati di Bruxelles e sull’arroganza e ottusità di Berlino facevano da sfondo al tentativo di guadagnare qualche margine minimale per la spesa pubblica: cifre irrisorie rispetto a quelle indispensabili a mettere in sicurezza il territorio, a ricostruire le aree terremotate, a rilanciare l’occupazione con un piano di investimenti pubblici, o a fronteggiare i flussi migratori di questa fase storica.
Il bello è che poi Renzi neppure riusciva a spuntare lo zero virgola per cui aveva combattuto, o meglio fatto finta di combattere. Tornava a casa con le pive nel sacco, sempre più accanito con i burocrati di Bruxelles e i tedeschi, ma sempre meno credibile con il suo patetico teatrino.
Solo una volta è sembrato che potesse spuntare qualcosa, sebbene entro i limiti dello zero virgola. È stato quando era in campagna elettorale per far passare la sua riforma costituzionale, voluta come tutti ricordano proprio dalla contestata tecnocrazia europea, oltre che dall’odiato Ministro delle finanze tedesco e da una accozzaglia di imbarazzanti compagni di strada: primi fra tutti gli operatori della finanza internazionale. Come era peraltro prevedibile, Bruxelles aveva solo fatto finta: nessuno aveva davvero immaginato che Renzi potesse ottenere quanto aveva elemosinato. Tanto è vero che l’Europa ha infine presentano il conto: per l’anno in corso l’Italia deve migliorare il rapporto tra deficit e pil dello 0,2%, il che equivale a trovare quasi tre miliardi e mezzo di Euro.
Ma non è questa la brutta notizia: c’è di peggio, di molto peggio. Mentre Renzi si scagliava contro l’austerità voluta dai tedeschi, lasciava che il suo Ministro dell’economia si impegnasse a ridurre drasticamente il deficit, fino a contenerlo entro lo 0,2% nel 2019. E questo significa che per i prossimi due anni il rapporto tra deficit e pil dovrà calare del 2,1%, ovvero di circa dieci volte l’entità della manovra aggiuntiva richiesta per l’anno in corso (Documento programmatico di bilancio 2017). Saranno cioè necessarie nuove entrate o risparmi di spesa per circa 35 miliardi di Euro, miliardo più miliardo meno, dal momento che il pil potrà anche crescere, ma non certo con dimensioni tali da incidere in modo significativo sulla cifra dovuta.
Il tutto mentre il mitico Fiscal compact, il Trattato che prevede l’obbligo del pareggio di bilancio, impone anche un rientro del debito pubblico entro i parametri di Maastricht, ovvero entro il 60% del pil. Come è noto il debito italiano, di circa 2.375 miliardi di Euro, ha superato il 130% del pil, sicché occorre portarlo a circa 1000 miliardi. E il Fiscal compact, entrato in vigore nel 2013, dice che occorre fare questo in venti anni (art. 4).
Insomma, tra leader europei che abbaiano alla luna e tecnocrazia affetta da autismo politico, l’Unione è inevitabilmente lanciata a tutta velocità contro il muro della sua imminente disgregazione. Al momento solo la destra sovranista sembra avere un piano alternativo: tornare al nazionalismo politico ed economico, ovvero recuperare sovranità per respingere i migranti e sostenere le imprese nella concorrenza internazionale, o meglio nel conflitto commerciale planetario. È questa destra a monopolizzare l’arena politica, oramai ridotta a scontro tra sovranisti xenofobi e forze neoliberali, progressiste e conservatrici, unite nel sostegno ai processi di globalizzazione dei mercati e della finanza.
Non sarà però la destra sovranista a salvarci dal neoliberalismo. Non saranno cioè gli Stati in lotta tra loro a recuperare livelli accettabili di giustizia sociale, e in particolare di redistribuzione della ricchezza: anche riscoprendo i confini, la concorrenza elevata a metro per l’azione politica impoverirà le persone e nuocerà all’ambiente. O in alternativa beneficerà il solo Paese vincitore della competizione, a naso non certo l’Italia, con buona pace dei lepenisti nostrani e di crede alle loro frottole.
E non ci salverà la xenofobia, buona sola ad alimentare il populismo, ovvero a legittimare l’idea per cui il popolo ha solo nemici esterni, mentre al proprio interno non conosce divisioni tra centri di interessi, gruppi professionali, ceti e classi in conflitto tra loro. Non è certo questo il modo per liberarsi dal culto del mercato, magari riabilitato come strumento di selezione del popolo eletto, ma pur sempre confermato come punto di riferimento per concepire lo stare insieme come società.
Insomma, lo scontro tra destra sovranista e forze neoliberali è solo apparente. Entrambe devono essere scalzate con un piano davvero alternativo, che però non si esaurisca nell’invocazione di una non meglio definita democratizzazione dell’Europa. Perché questa si realizzi occorre infatti tornare a valorizzare il livello statale, l’unico livello che conosce forme di partecipazione ulteriori rispetto a quelle concepite per consentire la sola amministrazione dell’esistente: occorre buttare a mare la governance e tornare al government.
L’Europa si può salvare solo tornando alla dimensione nazionale, intesa questa volta come luogo nel quale realizzare la direzione democratica, e non solo politica, dell’ordine economico. E se l’obiettivo non sarà raggiunto, se cioè non si costruirà un’altra Europa, almeno eviteremo di restare con il cerino in mano quando questa crollerà miseramente. Magari sotto i colpi della destra sovranista, in gara con le forze neoliberali per renderci tutti culturalmente e materialmente più poveri.
Fonte: MicroMega online
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