di Marco Bascetta
Sarà anche una scelta dettata dalla “lotta per la sopravvivenza” di una Spd in lungo, inesorabile declino, ma il passo indietro di Sigmar Gabriel, che lascia a Martin Schulz la guida del secondo partito tedesco e la candidatura alla cancelleria di Berlino, proietta anche un’altra immagine piuttosto forte. L’ex presidente del parlamento europeo non ha una indole particolarmente marcata a sinistra, le grandi coalizioni appartengono pienamente al suo dna e nulla lascia prevedere radicali cambiamenti di rotta tali da insidiare il consenso di cui gode Angela Merkel.
Eppure vi è un certo azzardo nello scegliere come candidato qualcuno che non ha praticamente nessuna esperienza di politica interna, che non ha mai messo piede nel Bundestag o nel governo di un Land. E, soprattutto, che trae la sua notorietà dall’essere un esponente di spicco della politica di Bruxelles e un convinto sostenitore dell’integrazione europea. Che si tratti della Cdu di Angela Merkel o della Spd di Martin Schulz, il legame tra la Germania e l’Europa si avvia a diventare sempre più una questione di vita o di morte, una dimensione imprescindibile.
Eppure vi è un certo azzardo nello scegliere come candidato qualcuno che non ha praticamente nessuna esperienza di politica interna, che non ha mai messo piede nel Bundestag o nel governo di un Land. E, soprattutto, che trae la sua notorietà dall’essere un esponente di spicco della politica di Bruxelles e un convinto sostenitore dell’integrazione europea. Che si tratti della Cdu di Angela Merkel o della Spd di Martin Schulz, il legame tra la Germania e l’Europa si avvia a diventare sempre più una questione di vita o di morte, una dimensione imprescindibile.
La guerra commerciale è stata ormai apertamente dichiarata da Trump e dal Brexit ruvidamente divisivo prospettato da Theresa May. Se il primo minaccia dazi stratosferici sulle auto tedesche, Londra si dice pronta a uno spietato dumping fiscale qualora l’Unione europea dovesse assumere atteggiamenti punitivi nei confronti del Regno Unito, mentre nel separarsi dal Continente fantastica di una ritrovata vocazione “globale”. Non passa giorno, insomma, che non si assista a esibizioni muscolari ed esercizi retorici sotto il segno della “grandezza nazionale”.
Certo ogni rodomontata ha i suoi limiti. Esiste il Wto (l’organizzazione mondiale per il commercio) con le sue regole, esistono interessi forti e flussi inarrestabili, interdipendenze e ramificazioni consolidate. I protezionismi, del resto, sono sempre stati di corto respiro e, a dir poco, piuttosto imperfetti. Per così dire, contro natura nel mondo dell’economia di mercato alla quale tutti continuano a giurare fedeltà. E, tuttavia, il clima che si respira oggi è quello di un conflitto tra interessi nazionali senza esclusione di colpi: «Prima gli Americani», «Prima gli Inglesi», ma anche tutta l’Europa dell’Est rivendica i suoi primati nazionali e perfino etnici, per non parlare della Francia dove la “preferenza nazionale” avanza a passi da gigante.
Questo “prima” degli altri farà purtroppo presto a diventare un“contro”di essi. Sugli interessi condivisi tendono sempre più a prevalere interessi oppositivi. Un editoriale di alcuni giorni fa sul settimanale tedesco Der Spiegel, si intitolava significativamente «Come ci si prepara a una guerra commerciale». L’autore, Jan Fleischhauer invitava a prendere Trump sul serio e avvertiva: se il primo nemico della politica commerciale americana sono i cinesi, il secondo siamo noi (i tedeschi). E se gli americani intendono colpirci con i dazi, dovremmo reagire imponendo a Facebook di rispettare leggi già esistenti in Germania e tassare adeguatamente i prodotti che Apple smercia in Europa. Colpo su colpo, insomma, in un mondo che non consente più di essere troppo morbidi o diplomatici.
Il problema è che l’Europa non è una realtà politica come gli Usa o il Regno unito, ma un consorzio di nazioni tra le quali vige una forte competitività interna. E che, anzi, in questa competizione fa risiedere la sua stessa idea di crescita e di progresso, imponendone l’applicazione con una serie di divieti e misure punitive. Ma come si potrà mai privare Apple dei suoi privilegi se il dumping fiscale attraversa e divide l’Unione? Come si potrà ritrovare il consenso oggi indirizzato verso le formazioni nazionaliste e xenofobe se la competizione imporrà una crescente compressione dei salari e del welfare? Per fare fronte alla nuova guerra transatlantica la Germania ha bisogno della dimensione europea, ma difficilmente si potrà chiedere ai cittadini del vecchio continente di combatterla in nome delle merci made in Germany. Per quale ragione gli irlandesi dovrebbero rinunciare ai vantaggi che gli arreca l’insediamento di Apple a Cork in risposta ai dazi minacciati da Trump sulle auto tedesche? E come pretendere dai partner europei più indebitati di spalleggiare un paese-guida indisposto a mediare tra la rendita finanziaria tedesca e il bisogno di crescita di altri paesi dell’Unione?
Si era soliti definire la Germania un gigante economico e un nano politico. E si direbbe che Berlino abbia trasmesso all’intera Unione questa duplice natura. Salvo il fatto che l’Europa è un gigante economico zoppo, gravato da forti squilibri interni, sottoposto a forze centrifughe (Brexit ne è un esempio) che ne minano l’efficacia e ne riducono il peso. Non sono le premesse migliori per “prepararsi alla guerra commerciale”. E le responsabilità della Germania nel determinare questa situazione sono tutt’altro che irrilevanti. Merkel e Schulz significano entrambi più Europa. Resta da vedere quanto più Europa tedesca o quanto più Germania europea.
Fonte: Il manifesto
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