di Monica Di Sisto
Gli Stati Uniti di Donald Trump diventano no global? La stampa internazionale si divide intorno alle scelte di politica commerciale adottate all’indomani dell’insediamento del presidente americano, indicando in lui il nuovo campione del protezionismo, motore di una progressiva deglobalizzazione. Ma è davvero così? A guardare bene, assolutamente no. Innanzitutto, non è Trump che deglobalizza il pianeta, ma è il commercio globale che è in frenata da oltre 10 anni. Nel suo ultimo rapporto l’Organizzazione mondiale del commercio lo definisce “fiacco” visto che per il sesto anno di fila gli scambi internazionali sono cresciuti meno del 3,0% ed il loro valore globale è crollato nel 2016 dai 19 trilioni di dollari dell’anno precedente a 16,5, rimasti più o meno tali lo scorsi anno.
Le speculazioni che stimolano la volatilità di titoli e prezzi, le chiusure a ripetizione di industrie e manifatture tra Europa e Usa, ma anche Cina, l’occupazione in picchiata, prezzi e salari in contrazione: sono alcuni dei determinanti di questo rallentamento del commercio. Trump ci si confronta ma non de-globalizza: stoppa il Tpp, il Trattato di liberalizzazione con i Paesi del Pacifico che avrebbe garantito condizioni di accesso preferenziale al mercato statunitense a tutti quei Paesi del Pacifico concorrenziali con le sue manifatture. Trump, però, ma apre alla Russia, mercato complementare al suo perché ricco d’energia ma scarso di trasformazione. Rispetto al trattato con l’Europa, il Ttip, sta a guardare perché, nel frattempo, apre un canale di negoziato con la Gran Bretagna che sta uscendo dall’Europa, e vuole capire quali saranno gli effetti sulla proiezione internazionale dell’Europa, sia della Brexit, sia del trattato di liberalizzazione commerciale tra Europa-Canada, il Ceta.
Molti milioni degli elettori di Trump, infatti, sono i disoccupati del Nafta, il “North American Free Trade Agreemen”, o i loro figli. Vent’anni fa gli Usa crearono un’area di libero commercio con Canada e Messico, il Nafta appunto, e il risultato per la manifattura e la trasformazione statunitensi furono devastanti: milioni di impianti e posti di lavoro persi negli Usa e mai più recuperati. Uno degli obiettivi dichiarati di Trump non è rescindere quel trattato, ma rinegoziarlo a proprio vantaggio e aspettare l’approvazione del Ceta che gli darà un quadro più chiaro su cosa ottenere attraverso il Canada anche dall’Europa. L’Europa, infatti, concederà al Canada e alle sue imprese con il Ceta condizioni di favore per l’accesso al nostro mercato comune. Non dimentichiamo, però, che oltre 40mila grandi imprese americane hanno sedi sussidiarie in Canada e potranno, così, anch’esse beneficiare di benefici commerciali diretti in Europa anche senza che noi concordiamo con gli Usa un trattato di liberalizzazione commerciale apposito come il Ttip.
Trump è, dunque, protezionista? No, solo strategico. Il suo capo negoziatore, infatti, arriva dall’esecutivo ultraliberista di Reagan. Trump non considera un dogma utilizzare i dazi per proteggere il mercato interno da beni con prezzi concorrenziali, ma questo lo faceva anche Obama, che manteneva senza imbarazzo livelli di dazi più alti di quelli europei. Anche la Cina innalza dazi “a sorpresa” quasi quotidianamente, come testimonia la lista di infrazioni che le vengono contestate in sede Wto ogni anno, nonostante si sia presentata al Forum economico di Davos come il nuovo testimonial del liberismo. Gli Stati Uniti di Obama, inoltre, nel corso del negoziato Ttip con l’Europa, non avevano mai consentito a rinunciare a tutte le barriere non tariffarie che hanno eretto negli anni, soprattutto per bloccare alle frontiere buona parte dei prodotti alimentari italiani, chiedendo al contrario all’Europa di farlo sin dall’entrata in vigore del trattato. Nessuna delle economie emergenti, che ancora tengono nonostante la crisi, hanno mai consentito al livello di azzeramento che vige in Europa, la più rispettosa dei livelli pur approvati da tutti nell’Organizzazione mondiale del commercio. Sono loro i protezionisti, o noi quelli più realisti della regina Wto?
Il problema più urgente che ha l’Europa in questo momento rispetto a Trump non è lanciare anatemi o lanciarsi in definizioni, ma, pragmaticamente, è prendere le misure. Deve cominciarlo a fare con il Ceta, proprio per il pericolo che il Canada venga usato come Cavallo di Troia verso il nostro mercato, già tanto disastrato, da un liberal-pragmatico come Trump. Il Parlamento Europeo voterà il 15 febbraio prossimo a Strasburgo l’entrata in vigore del trattato, invitando il presidente canadese Justin Trudeau a godersi quello spettacolo. Quel Trudeau che, congratulandosi con il neopresidente americano per la sua vittoria, ha affermato che i loro “valori condivisi sono forti – quelli del suo Canada e dell’America di Trump – Il nostro obiettivo comune è quello di costruire Paesi in cui ognuno ha una buona possibilità di avere successo, e dove il governo lavora prima di tutto e sempre, per la gente che governa. Il governo canadese continuerà il suo duro lavoro per questi obiettivi, e tende la sua mano ai propri vicini, come amici e alleati, nel loro progresso”.
Come il 21 gennaio scorso, quando centinaia di migliaia di persone in tutta Europa sono tornate in piazza per dire Stop Ceta, vi chiediamo fino all’ultimo minuto utile di contattare il neopresidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani e gli europarlamentari che avete eletto, chiedergli di fare la cosa giusta, e di votare “no” al Ceta. Elenchi, indirizzi e istruzioni le trovate qui. Perché Trump non si ferma con le condanne o la retorica, ma con azioni concrete come bloccare il Ceta prima che sia troppo tardi.
Fonte: Il Fatto Quotidiano
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.