di Gianfranco Sabattini
Sul problema delle disuguaglianze è in libreria una volume di Maurizio Franzini e di Mario Pianta, il cui titolo, “Disuguaglianze: quante sono, come combatterle”, lascia intuire che non saranno individuate e descritte solo quelle causate dall’operare dei meccanismi economici, ma anche quelle che apparentemente sono di origine extraeconomica. La varietà delle cause delle disuguaglianze vale a trasformarle in uno dei principali problemi del capitalismo contemporaneo, oggetto di una crescente attenzione da parte degli addetti ai lavori nel campo dell’economia e delle altre scienze sociali, ma assai poco degli addetti al lavoro politico.
Tra l’altro, secondo Franzini e Pianta, considerata la complessità del problema delle disuguaglianze, non si dispone ancora di “una spiegazione convincente e completa dei meccanismi che ne sono alla radice”, sebbene l’opinione pubblica sia “sconcertata nell’apprendere che oggi la ricchezza posseduta dall’1% più ricco della popolazione mondiale è uguale a quella del resto dell’umanità”. Tuttavia, nonostante lo sconcerto dell’opinione pubblica e le occasionali reazioni popolari contro l’iniqua distribuzione della ricchezza a livello mondiale e a livello dei singoli sistemi sociali, non si dispone, per via della mancanza di una conoscenza completa dei meccanismi che originano la disuguaglianza, di una strategia politica appropriata per invertire la tendenza ad una continua crescita delle disparità distributive.
Il pensiero economico standard ha normalmente sostenuto che la disuguaglianza è una condizione necessaria per la promozione della crescita e dell’efficienza del mercato, per cui costituirebbe un non-senso preoccuparsi eccessivamente del fenomeno. Inoltre, poiché la disuguaglianza ha radici plurime (riguardanti reddito, ricchezza, lavoro, genere, istruzione ed altro), viene anche sostenuto che le forme da essa assunte sono di una complessità tale da rendere difficile che, rimuovendo una delle radici, non si peggiori l’impatto delle altre. Queste considerazioni, per quanto vere, secondo Franzini e Pianta, non giustificano però che si rinunci a qualsiasi tentativo di ridurre la dimensione della disuguaglianza.
Il fenomeno della disuguaglianza del XX secolo ha avuto nella transizione dalla società agricola a quella industriale, nella struttura di classe della società e nei rapporti di forza tra detentori del capitale e detentori dei servizi della forza lavoro i suoi principali “motori”, che hanno determinato la distribuzione funzionale del reddito tra capitale e lavoro. Oggi, secondo Franzini e Pianta, è l’attività finanziaria a prevalere su quella industriale e a “ridefinire” la dinamica della distribuzione del reddito.
Nel XX secolo, la struttura di classe della società spiegava gran parte della disuguaglianza in termini di reddito, di status e di opportunità; oggi, per quanto le identità di classe siano meno precise, la disuguaglianza è più profonda, anche perché nuove cause concorrono a determinarla. Nel passato, l’appartenenza ad una determinata classe sociale, in particolare a quella della forza lavoro, piuttosto che a quella dei capitalisti, era sufficiente a determinare la posizione di un dato soggetto nella scala sociale. “Oggi – affermano Franzini e Pianta – le posizioni dei vari individui sono il risultato di una varietà di fattori, nuovi meccanismi definiscono le condizioni economiche di gruppi particolari e la disuguaglianza tra individui che fanno parte di categorie sociali relativamente simili può essere molto alta”.
Il lavoro di Franzini e Pianta mira a individuare i meccanismi che nel mondo di oggi concorrono a determinare l’aumento della disuguaglianza, al fine di potere, da un alto, dare conto della sua complessità e, dall’altro lato, individuare possibili politiche alternative idonee, se non a rimuoverla, almeno a contenerla. Secondo gli autori, le forze che alimentano la disuguaglianza sono riconducibili all’azione di quattro “motori”: il “potere del capitale sul lavoro”, il “capitalismo oligarchico”, l’”individualizzazione” e l’”arretramento della politica”.
All’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, con le vittorie di Margaret Thatcher nel Regno Unito e di Ronald Reagan negli Stati Uniti, sono andate al potere forze politiche che hanno rotto il consenso keynesiano sulla politica economica inaugurata nel dopoguerra, facendo venir meno il controllo dei movimenti di capitale e il ruolo dello Stato nella ridistribuzione del reddito e nella fornitura di servizi di welfare. Ciò ha determinato a livello produttivo il prevalere del capitale sul lavoro e l’ascesa della finanza; un decennio dopo, la globalizzazione, associata ad un alto tasso di progresso tecnologico, soprattutto nel campo dell’informazione e della comunicazione, ha trasformato i processi di accumulazione, riducendo la produzione interna, distruggendo posti di lavoro, sgretolando il potere dei sindacati e diminuendo i salari. La conseguenza di tutto ciò, nei Paesi economicamente avanzati, è stata lo spostamento ”di almeno 10 punti percentuali del Prodotto interno lordo (Pil) dalla quota dei salari a quella del capitale”.
Lo spostamento di una quota consistente del Pil a favore del capitale ha determinato un forte aumento dei redditi più elevati, originando una “nuova aristocrazia del denaro”, la cui conservazione ha finito col prevalere sull’interesse ad aumentare i flussi di reddito. In tal modo, i super ricchi hanno acquisito sempre più le caratteristiche degli oligarchi, la cui ricchezza si è accresciuta grazie al potere e al privilegio, indipendentemente dal merito. Così, il capitalismo oligarchico ha contribuito ad irrobustire la disuguaglianza intergenerazionale, attraverso la trasmissione per via ereditaria della ricchezza accumulata all’interno delle famiglie. In questo modo, la mobilità sociale si è indebolita ed è diminuita la relazione tra merito e quote di Pil acquisite, con la conseguenza che il potere oligarchico ha potuto “sempre più influenzare i processi politici, condizionando i governi e determinando un drammatico indebolimento dei sistemi democratici”.
Il crescente potere del capitale e di quello degli oligarchi, affermano Franzini e Pianta, sono i motori che alimentano la disuguaglianza nella parte più alta della scala di distribuzione del reddito, nel senso che concorrono a fare aumentare la distanza tra i più ricchi e tutti gli altri; ma la disuguaglianza è aumentata anche all’interno di questi ultimi, grazie al motore dell’individualizzazione, che ha provocato una polarizzazione delle competenze e delle qualifiche, mettendo i lavoratori in concorrenza l’uno con l’altro sul piano della rimunerazione dei loro servizi. Con ciò, i “meccanismi tradizionali che creavano identità collettive e solidarietà […]sono stati indeboliti da un’individualizzazione che può essere vista come un ulteriore e più profondo segno del nuovo potere del capitale sul lavoro”.
Per effetto delle idee del neoliberismo, è cambiato il ruolo della politica nel governo del funzionamento del sistema economico e della distribuzione del reddito. Fino agli anni Settanta, nei Paesi economicamente avanzati, lo Stato ha provveduto a contenere la disuguaglianza; dagli anni Ottanta, le politiche di contenimento delle disparità distributive sono state ridotte o notevolmente indebolite. Come documentano molti studi e ricerche, l’impatto dell’arretramento delle politica sulla disuguaglianza ha avuto conseguenze negative, nel senso che è aumentata la povertà e il degrado sociale e si è anche ridotta in molti Paesi (inclusa l’Italia) la speranza di vita per i meno ricchi.
L’azione dei quattro motori che hanno concorso ad alimentare l’approfondirsi della disuguaglianza ha riportato i Paesi economicamente avanzati alle disparità economiche prevalenti del passato; Franzini e Pianta, tenuto conto della natura della disuguaglianza di oggi e delle sue conseguenze suggeriscono, tenendo presente la spinta dei quattro motori che la alimentano, alcuni possibili rimedi in grado di ridurla o di contenerla. Le misure per rendere operativi tali rimedi sono volte, sia a prevenire la formazione della disuguaglianza, sia a ridistribuire ex post il reddito e la ricchezza, attraverso l’attuazione di una politica pubblica integrata che abbia come obiettivi quelli di “regolare la finanza, di controllare il processo di globalizzazione e di indirizzare il progresso tecnologico”, ma anche quelli di contrastare l’evasione e l’elusione fiscale e di “combattere i paradisi fiscali”.
Per l’attuazione di una politica integrata idonea a contrastare e a contenere la disuguaglianza, divenuta oggi più complessa rispetto al passato, dovrebbero innanzitutto essere adottate delle misure preventive, finalizzate, da un lato, “a riscrivere le regole di funzionamento dei mercati e a riformare le istituzioni dalle quali dipende la disuguaglianza” e, dall’alto lato, a “ridurre le disuguaglianze nelle opportunità e nelle dotazioni di partenza” degli individui e a favorire che il dibattito pubblico sul problema della disuguaglianza avvenga all’interno di una “visione integrata della politica egualitaria”, tale da includere “praticamente tutte le politiche – da quella macroeconomica a quella industriale, da quella sociale a quella ambientale”.
Sulla scorta delle misure preventive indicate, la “politica egualitaria integrata”, secondo Franzini e Pianta, dovrebbe principalmente perseguire congiuntamente gli obiettivi di “riequilibrare i rapporti capitale/lavoro”, di contenere il “capitalismo oligarchico”, di “contrastare l’individualizzazione delle condizioni economiche” e di “tornare a efficaci politiche di ridistribuzione”. In particolare, con riferimento a quest’ultimo obiettivo, Franzini e Pianta suggeriscono che il modo migliore per perseguirlo dovrebbe consistere nel “tassare in modo appropriato la ricchezza a livello nazionale e internazionale, nell’accrescere la progressività delle imposte sul reddito delle persone fisiche e nell’introdurre un reddito minimo”.
Gli autori, consapevoli della complessità del fenomeno da contrastare e della politica appropriata allo scopo da utilizzare, osservano anche che, poiché le azioni per il raggiungimento dei singoli obiettivi tendono ad interagire tra di loro e l’impatto sulla disuguaglianza può risultare contrastante, oppure di reciproco rafforzamento, sarà necessario che siano valutati attentamente tutti gli effetti di ognuna di esse sulle le altre; tutto ciò, al fine di garantire il successo della politica integrata anti-disuguaglianza.
Franzini e Pianta concludono il loro discorso su tale politica, consapevoli degli ostacoli che, per la sua attuazione, dovranno essere superati; a loro parere, un primo ostacolo potrebbe consistere nel fatto che molte persone, pur danneggiate dalla disuguaglianza, tendono ad accettarla perché, ad esempio, la considerano un fenomeno inevitabile, oppure perché sono molti coloro che non tollerano che chi subisce gli esiti negativi della disuguaglianza trovi un soggetto collettivo (partito o movimento) per dare “uno sbocco politico” al suo problema. Il principale ostacolo, tuttavia, lo opporranno coloro che saranno danneggiati dalla politica anti-disuguaglianza, il cui attivismo potrebbe favorire l’affermarsi di un capitalismo oligarchico e l’involuzione delle istituzioni democratiche.
Perché ciò sia evitato, attraverso processi sociali – precisano gli autori – ben diversi da quelli tragici del XX secolo, sarà necessario un “profondo cambiamento sociale e politico”; questo dovrà consentire la rimozione dal pensiero collettivo dell’”eccessiva, benevola tolleranza – se non di ammirazione – nei confronti delle ricchezze stratosferiche”, per essere sostituita dal convincimento che l’individualismo senza freni non è il “motore del progresso”, per riconoscere che il collante che tiene insieme tutti i componenti di un sistema sociale è la solidarietà e che in una società più egualitaria tutti possono trovare conveniente vivere.
E’ difficile non condividere l’analisi complessiva compiuta da Franzini e Pianta sul fenomeno della disuguaglianza e sulla loro proposta complessiva per contrastarla e contenerla; ciò che induce a restare perplessi e dubbiosi è che il rimedio che essi propongono consista nell’affidarsi ad un possibile cambiamento sociale e politico ad opera non si sa di chi, se non facendo riferimento all’autocoscienza di chi è vittima delle ineguaglianze ed al partito o movimento che ne recepisca le istanze di cambiamento. Si tratta di un tempo lungo che, a meno di un’evoluzione della realtà del mondo che abbia iscritta in se stessa lo spontaneo venir meno dei fenomeni indesiderati, costringerà chi è vittima della disuguaglianza a convivere con essa.
Fonte: Il manifesto sardo
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