La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 28 luglio 2016

Cinque anni dopo Fukushima. Franco Berardi Bifo intervista Jun Hirose Fukuja

Intervista a Jun Hirose Fukuja di Franco Berardi Bifo 
Cos’è accaduto sul piano politico e culturale dopo il disastro di cinque anni fa?
"In questi cinque anni la società giapponese è sempre rimasta in movimento: prima contro il nucleare, contro la riapertura delle centrali in particolare, poi contro la legislazione del segreto di Stato, e oggi contro la militarizzazione. Nel frattempo è apparsa anche una organizzazione di destra estrema (Zaitokukai: Associazione dei cittadini contro i privilegi speciali dei coreani del Giappone), contro cui si è formato un movimento antifascista. E in Okinawa c’è un gran movimento popolare contro la costruzione di una nouva base militare statunitense.
Si può dire che questa stagione di lotte non è iniziata con il movimento anti-nucleare, bensì con ilmovimento contro la povertà, apparso nel 2008 sotto la crisi economica mondiale, e diventato così importante da condurre in settembre 2009 alla prima vittoria elettorale il Partito democratico, fondato nel 1998 dalla confluenza della destra del’ex-Partito socialista e della dissidenza sinistra del Partito liberale democratico. Ma il movimento anti-nucleare non è stato la continuazione del movimento precedente e ha nascosto il tema della povertà. Il movimento anti-nucleare avrebbe potuto integrare il suo discorso con la questione della povertà. Ma non lo sapeva, oppure non lo voleva. La propagazione aleatoria della radioattività su un vasto territorio indeterminabile indusse il movimento a fondare la sua unità su un’idea di uguaglianza: “Siamo uguali sotto la neve nucleare!”. Ma dobbiamo dire che non è vero per niente. È evidente che i poveri sono molto più esposti alla radioattività che i ricchi: non sono i ricchi che lavorano nella centrale esplosa; e sono i poveri che mangiano i prodotti agricoli provenienti da Fukushima e dai suoi dintorni."
Chi anima il movimento contro la riapertura delle centrali?
"L’incidente nucleare iniziò sotto il governo di Kan. Parlo di “inizio” perché l’incidente non è finito, è sempre in corso: viviamo tuttora nel bel mezzo e non in un dopo (si può parlare di “dopo” solo rispetto al terremoto-tsunami). In settembre 2011, Kan lasciò il suo posto a Noda. Il governo di Noda mostrò dall’inizio la sua tendenza verso la riapertura delle centrali, ciò provocò una gran furia tra la popolazione. Si intensificò la contestazione dappertutto in Giappone. Noda fece venire al suo ufficio i rappresentanti del movimento, questo gesto non aveva precedenti, però alla fine decise di riaprire la centrale nucleare di Ohi in giugno 2012. È da notare che il movimento anti-nucleare ha guadagnato una dimensione veramente grande dopo quella decisione governativa. Durante tutta un’estate, ogni venerdì sera scesero in piazza duecentomila persone davanti alla residenza ufficiale del primo ministro a Tokyo.
Perché il movimento vide quel salto quantitativo dei partecipanti (dieci volte più numerosi di quelli di prima) dopo la decisione governativa? Molta gente ha trovato in questo un segno della crisi della democrazia: “Ora siamo uguali non solo sotto la neve nucleare ma anche davanti alla crisi della democrazia!”. Di fatti, il tema della democrazia attraversa tutte le questioni che si produssero sulla scia di quella anti-nucleare: la legislazione del segreto di Stato era considerata come un attacco alla distribuzione democratica delle informazioni pubbliche; ed è la rivendicazione della democrazia che mette in risonanza il movimento contro la costruzione di una nuova base americana a Okinawa e quello contro la militarizzazione del Giappone, entrambi cresciuti sotto il governo attuale di Abe.
Il rapporto tra Tokyo e Okinawa è assimilabile a quello tra Bruxelles e Grecia. La popolazione di Okinawa nella maggioranza è contro il progetto governativo dello “spostamento interno”, cioè della costruzione di una nuova base nella propria prefettura in sostituzione di un’altra base a Okinawa attualmente in funzione. Quest’opposizione è espressa non solo in piazza ma anche attraverso le tre diverse elezioni realizzate nel 2014: l’elezione del sindaco di Nago, il comune in cui Tokyo e gli Usa vogliono aprire la nuova base, poi l’elezione della Camera alta, nelle cui circoscrizioni di Okinawa vinsero i candidati contrari allo spostamento interno, ed infine l’elezione del prefetto di Okinawa. Ma perfino dopo la schiacciante vittoria del candidato che si oppone, il governo di Abe non ha esitato un momento a continuare la costruzione della nuova base. Il caposegretario del gabinetto ha detto: “Abbiamo già ottenuto il consenso del prefetto precedente, non potremo ricominciare da capo ogni volta che ci sono delle nuove elezioni”. È un discorso identico a quello di Schäuble contro la Grecia."
Che significato ha la nuova politica militare?
"La militarizzazione in corso contiene due elementi: uno è la legislazione della difesa collettiva, l’altro è la revisione radicale dei Principi sull’esportazione degli armamenti. La legislazione della difesa collettiva inizia con una nuova “interpretazione” dell’articolo 9 della Costituzione del 1946. L’articolo dice: “Il popolo giapponese rinuncia per sempre alla guerra come diritto sovrano della nazione e alla minaccia o all’uso della forza come mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali. Per raggiungere lo scopo determinato nel paragrafo precedente non saranno mai mantenute forze di terra di mare o di aria e qualsiasi altra forza potenzialmente militare. Il diritto di guerra dello stato non sarà riconosciuto”.
Tra il testo e la realtà si è generato uno scarto a partire dal 1950, quando il Giappone si è dotato delle forze armate dietro la richiesta degli Stati Uniti nel contesto della guerra coreana. Per supplire a questo scarto, il governi successivi del Pld facevano ricorso a una terza istanza, cioè, quella di “interpretazione”. Durante sessantacinque anni, l’articolo 9 era sempre interpretato come testo che permette allo Stato giapponese di dotarsi delle forze armate allo scopo della difesa individuale. Altrimenti, la difesa collettiva, la cui legittimità è d’altro canto riconosciuta nell’ambito del diritto internazionale, era considerata come corrispondente al “mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali” e come non applicabile per ciò al Giappone senza rivedere lo stesso testo costituzionale.
Il punto è che quest’istanza di interpretazione dipende dalle competenze del potere esecutivo e non da quelle del potere legislativo né da quelle del giudiziario. Ciò permise a Abe di modificare radicalmente l’interpretazione solo con una decisione governativa. Ed è in base di questa nuova interpretazione che Abe fece votare il suo progetto di leggi della difesa collettiva alla Dieta, nelle cui due Camere il suo partito detiene da luglio 2013 la maggioranza assoluta con il Komeito (braccio politico della Soka Gakkai, grande movimento buddista con dieci milioni di fedeli).
Quanto alla questione dei nuovi Principi sull’esportazione degli armamenti, anche essa dipende dalle competenze del potere esecutivo, perché gli stessi Principi precedenti, che hanno proibito ai fabbricanti giapponesi di esportare gli armamenti per circa cinquanta anni (1967-2014), sono stati stabiliti con una decisione governativa e mai legiferati. Se la mobilitazione contro la militarizzazione è stata massiccia, è perché molta gente vedeva in questa, e nel processo di legislazione della difesa collettiva in particolare, un coup d’état governativo (e legislativo): il governo di coalizione Pld-Komeito riformò de facto la Costituzione senza passare per le procedure democratiche determinate nella stessa Costituzione, cioè, senza consultare la popolazione con un plebiscito.
Ciò detto credo che la portata politica di questo nuovo ciclo di lotte sviluppato sotto la neve nucleare non si riduce solo alla rivendicazione (reazionaria, a mio parere) della democrazia davanti alla sua evidente crisi. Al di sotto del rumoroso slogan “Democrazia, democrazia!”, si sta sviluppando silenziosamente però robustamente qualcosa d’altro, cioè una nuova lotta di classe. “Nuova”, perché non si tratta di quella (democratica) dei “99%” contro l’“1%”, bensì di quella con cui gli stessi 99% si dividono in due in modo da dare forma una nuova classe. Mi spiego.
È da notare che la Rengo, la confederazione sindacale più grande del Giappone (con otto milioni di iscritti), principale sostenitrice del Pd, non è contraria alla riapertura delle centrali né alla militarizzazione. È la Rengo che fece pressione sul Pd per rimuovere dal posto di primo ministro Kan, che rifiutava di riaprire le centrali. Quanto alla militarizzazione, la Rengo criticava solo le procedure “non democratiche” con cui il governo di Abe la promosse, e taceva rispetto al suo contenuto.
Quest’atteggiamento della confederazione sindacale è comprensibile: tutto per difendere l’occupazione. L’abbandono del nucleare non solo provocherebbe una riduzione del personale nelle imprese elettriche come la Tepco, ma anche produrrebbe un’instabilità nel rifornimento dell’elettricità, la quale si tradurrebbe in un’instabilità dell’occupazione in tutti i settori industriali. D’altro lato, nella situazione attuale di declino della produzione industriale giapponese, la militarizzazione rappresenta la sola e unica misura con cui si possono creare nuovi posti di lavoro: la liberalizzazione dell’esportazione degli armamenti attiverà l’industria bellica giapponese, finora bloccata dai precedenti Principi; e l’esercizio della difesa collettiva con gli Usa stimolerà il consumo ed avrà così effetti positivi.
La Rengo rappresenta perfettamente gli interessi del lavoro salariato giapponese complessivo. Da qui abbiamo bisogno di ritornare alla questione del ciclo odierno di lotte: l’opporsi al nucleare e alla militarizzazione significa oggi nient’altro che l’opporsi al lavoro salariato. Se è vero che la maggioranza dei manifestanti sono loro stessi dei salariati e degli studenti, cioè dei futuri salariati, si deve dire che si tratta di una lotta dei salariati contro i propri interessi. È una lotta di classe, in cui i salariati si oppongono a sé stessi per formare una nuova classe. Fra le organizzazioni principali del movimento anti-militarizzazione, quella delle madri –Associazione delle mamme contro la legislazione militarista – diceva ad esempio: “La Keidanren (Confindustria giapponese) propone che lo Stato promuova l’esportazione degli armamenti come strategia economica. Se si tratta di un’economia che non può durare senza entrare in quella via sanguinosa, noi non vogliamo questa economia!”. Le madri lo dicevano pur sapendo che da quell’economia medesima dipende la futura occupazione per i loro figli.Opponendo un netto rifiuto alla militarizzazione del capitale industriale nazionale, esse sono già pienamente pronte, per i figli e per sé stesse, ad abbandonare la dipendenza della vita dal lavoro salariato.
Questa tendenza verso il superamento del lavoro salariato si esprime non solo sotto forma di mobilitazione di piazza ma anche in una tutt’altra forma, meno mediatizzata, meno visibile. L’incidente di Fukushima suscitò una massiccia migrazione interna, non solo da Fukushima verso altre regioni, ma anche da Tokyo verso Kyoto, verso Kyushu, ecc. Per molta gente l’ampia e indeterminabile contaminazione radioattiva fu l’occasione di aver il coraggio di lasciare la propria vita per cominciare un’altra vita partendo da niente. Questo movimento di esodo continua tuttora, e ciò per due ragioni: primo perché l’incidente è sempre in corso; secondo perché la mobilità ha carattere altamente contagioso. Si tratta del “coraggio della verità”, direbbe l’ultimo Foucault."
Come definiresti la politica economica del governo Abe?
"Abe la chiama Abenomics. Essa è composta da tre “frecce”: una monetaria, una fiscale e una produttiva. Il punto comune a quelle tre frecce consiste nella centralità dello Stato in quanto macchina di riscossione e ridistribuzione della ricchezza. Ma l’Abenomics non fa funzionare questa macchina nella direzione in cui funzionava durante l’epoca dell’economia a rapida crescita. Oggi non si tratta più di trasferire della ricchezza dai ricchi verso i poveri, bensì nella direzione opposta. In altri termini, l’Abenomics non è niente d’altro che una delle tipiche politiche economiche contemporanee consistenti nel fatto che lo Stato si incarica di “socializzare le perdite e [di] privatizzare i benefici” (Marazzi).
La prima freccia, quella monetaria, porta in sé tre direttrici differenti: la fissazione dei tassi di interesse allo zero, anzi in negativo, il quantitative easing e l’indebolimento dello yen. I tassi di interesse fissati allo zero conducono il denaro verso i mercati finanziari in due modi diversi: da un lato disincentivando il risparmio degli individuali e dall’altro disincentivando il prestito delle banche. Nel secondo caso, la fissazione dei tassi funziona insieme con il QE: si tratta di incitare le istituzioni bancarie a concentrare nei circuiti finanziari tutta la liquidità creata dalla banca centrale con il QE, cioè a pezzo dell’indebitamento della società intera. Quanto all’indebolimento della moneta giapponese, realizzato a prezzo della svalutazione dei patrimoni privati della popolazione complessiva, esso permette alle grandi imprese esportatrici come la Toyota di aumentare il reddito senza creare la domanda al di là della saturazione dei mercati.
La seconda freccia, quella fiscale, consiste in un aumento del tasso di imposta sul consumo. Qui è da vedere il gioco dialettico messo in scena intorno al sistema di rimborso.
Tesi: lo Stato rimborsa alle grandi imprese esportatrici la somma totale della tassa che hanno pagato ai loro subappaltatori al comprare i pezzi. Antitesi: nel loro rapporto di forza asimmetrico, quelle grandi imprese impongono ai loro fornitori di includere nel prezzo precedente tutta la parte corrispondente all’aumento di tasso di imposta. Sintesi: tutto ciò che è stato pagato dalla popolazione viene concentrato, attraverso lo Stato, nelle mani delle grandi imprese.
Nella terza freccia, quella della crescita, ci sono due elementi: il militarizzarsi del capitale industriale, di cui abbiamo già parlato, e l’intensificarsi della liberalizzazione del mercato del lavoro. In Giappone come negli altri paesi, siamo in un passaggio fondamentale dalla condizione operaia verso una condizione di tipo schiavistico. Durante l’epoca industriale, fra un’impresa e ciascun operaio individuale c’era un cambio di equivalenti: attraverso il salario si potevano recuperare le energie consumate nel processo di produzione. Oggi non è più così:ogni mattina sei più stanco perché il salario non basta mai. Nella vendita della forza-lavoro si opera ormai l’appropriazione della ricchezza, senza cui l’impresa non potrebbe mantenere in attivo il suo bilancio.
Ho detto che il governo di Abe aveva recuperato il discorso sociale tradizionalmente attribuito al Pc. Si può ritrovare un’operazione simile nell’Abenomics. Difatti ciascuna freccia è dotata di doppia faccia, reale e immaginaria: tutte le tre frecce sono tirate al solo scopo di trasferire della ricchezza dai poveri ai ricchi, pur tuttavia questo viene giustificato in termini sociali. Abe spiega: la disincentivazione del risparmio sotto i tassi di interesse fissati allo zero riaccende il consumo; con il QE si combatte la deflazione; il deprezzamento dello yen incentiva l’esportazione; l’aumento del tasso di imposta sul consumo è necessario per assicurare la previdenza sociale; ed il mercato del lavoro va sempre più liberalizzato per raggiungere la piena occupazione. Importante è chiederci in che consiste la funzione di queste giustificazioni puramente immaginarie.
Nell’Abenomics il discorso non funziona per nascondere la realtà agli occhi della popolazione: tutti sanno benissimo che l’Abenomics è una politica anti-sociale e niente di più. La sua funzione dunque non è ideologica ma è semiotica. Questo è il punto: il discorso sociale si produce oggi come un segno da emettere verso gli agenti finanziari…"
Quale reazione politica ha suscitato l’Abenomics?
"L’Abenomics è un tema che rimane secondario nel nuovo ciclo di lotte. Se ne possono desumere diverse ragioni, ma credo che la rivendicazione della “giustizia sociale” davanti alla concentrazione della ricchezza nelle mani dei ricchi non interessa molto coloro che si sono già messi alla ricerca di una nuova forma di vita al di là di quella dipendente dal lavoro salariato.
La Rengo fa un’opposizione ambivalente: se nel suo discorso critica l’Abenomics, in realtà non è tanto contrario. Quest’ambivalenza viene dal fatto che dopo il 2008 la confederazione sindacale formalmente si incarica di rappresentare gli interessi dei lavoratori precari, oltre ai quelli dei salariati tradizionali. Se dal punto di vista dei precari la Rengo deve opporsi all’Abenomics, dal punto di vista di una gran parte di salariati tradizionali non ce ne è ragione: grazie all’Abenomics la maggioranza dei salariati delle grandi imprese hanno visto i loro salari considerabilmente aumentati.
Per concludere provvisoriamente le mie risposte, vorrei aggiungere un’osservazione: il ciclo di lotte attuale non si esprime solo in piazza e in migrazione interna ma anche in diversi episodi marginali di criminalità. Si moltiplicano gli atti criminali in cui si manifesta la lotta di classe. I posti di lavoro sono ormai la scena della criminalità. Nelle case di riposo i badanti poveri precari offendono gli anziani ricchi. Nei supermercati i lavoratori part-time, spesso studenti, fanno brutti scherzi sulle merci e mettono i selfie in internet. E tali atti criminali sono tanto contagiosi da concatenarsi all’infinito. Così dappertutto in Giappone, perlomeno in maniera sotterranea e molecolare, si sta formando un clima sovversivo con la comparsa di una nuova soggettività."

Fonte: comune-info.net 

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