di Daniele Vicari
Anche questa m’è toccata nella vita, la censura di Facebook. Devo dire che fa piuttosto ridere, viene da sentenziare alla romana “ma che me frega!”… però c’è un però. Dopo una serie di episodi curiosi, che hanno riguardato anche il manifesto, nella figura del grande Mauro Biani, e Zerocalcare, reo di aver ricordato Carlo Giuliani, e sempre su questioni sensibili riguardanti Genova2001. Ovviamente tutta quella questione è ancora tabù per gran parte della “opinione pubblica”, perché in quei giorni si è messo in discussione lo Stato di Diritto, la praticabilità democratica della piazza, le idee di un movimento contraddittorio ma con qualche elemento di innovazione nella pratica politica e nella costruzione del futuro.
Oggi cosa ne resta, oltre a pochi reduci impegnati a smentirsi a vicenda?
Nessuno si illude che Facebook sia il regno della comunicazione orizzontale, solo i teorici della postmodernità si riempiono la bocca da alcuni decenni di questioni astratte, mentre la pratica è altra cosa. E come Facebook anche gli altri social. Perché è chiaro che le proprietà di questi mezzi, ormai imprese globali che possono spedire nello spazio missioni miliardarie, come fossero la Russia gli Usa o la Cina, possono agire in maniera autonoma dalle leggi degli stati, figuriamoci se si fermano dinanzi alle rimostranze di qualche decina di utenti su miliardi e miliardi che li utilizzano ogni giorno per scambiarsi ricette, saggi filosofici, video artistici e porno, indicazioni utili per fare bombe e organizzare attentati.
Tutto ciò nietepopodimenoché in nome della “libertà di espressione” degli individui!!!
Insomma siamo su Facebook, nell’era della follia telematica, è in corso una civile polemica tra me e un giovane regista in merito alle nostre rispettive idee sul cinema, il gentilissimo e determinatissimo Michele Diomà che tira secondo me “incautamente” in ballo Francesco Rosi.
E così la polemica, sempre credo nei limiti della civiltà, è andata avanti per un paio di giorni, ed è stato uno scambio interessante.
L’oggetto del contendere è la vulgata secondo la quale nei film che raccontano fatti realmente accaduti bisogna fare «i nomi», e la questione mi perseguita da quando ho realizzato Diaz, vengo accusato di non aver fatto come Rosi e persino come Petri.
Siccome né l’uno né l’altro hanno mai fatto una cosa simile se non in casi specifici e irripetibili, sono anni che rispondo con ironia a queste osservazioni.
Rosi per esempio ha «fatto i nomi» solo nel Caso Mattei, un biopic d’inchiesta dove era praticamente impossibile evitarlo. Ma curiosamente, e non solo da Michele Diomà, viene spesso tirato in ballo Le mani sulla città, purtroppo per i miei detrattori Rosi, con una didascalia che precede di poco i titoli di coda avverte: «I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari…».
Forse è bene rivederseli (o vederseli) questi film prima di citarli a sproposito. Su questo punto specifico è intervenuta Carolina Rosi, e mi piace riportare una sua frase: «Mio padre mi diceva sempre che lui nei suoi film non ha mai sposato una tesi, si è limitato a raccontare i fatti, a fare ipotesi a cercare di unire i pezzi perché ognuno poi con la propria coscienza potesse trarne le dovute conclusioni. Le indagini le lasciava alla magistratura… solo una volta di fronte alla reale scomparsa di De Mauro ha deciso di intervenire di persona e si è messo nel film, perché era dovuto».
Insomma si parlava solo di cinema, tra persone appassionate.
Ecco che improvvisamente il mio post scompare con tutta la lunga discussione. Un messaggio di Facebook mi avverte della rimozione e mi intima di non ripetere l’errore. Ovviamente ri-pubblico di nuovo il mio primo post, con annessa protesta, e di nuovo Facebook lo cancella e sospende il mio accesso per 24 ore, avvertendomi che ad una nuova infrazione il mio Profilo verrà sospeso definitivamente.
Vedo avvicinarsi la fine della mia permanenza su questa piattaforma, e se non ci sarà un chiarimento pubblico da parte dell’Ufficio stampa di Facebook, la cancellazione del profilo la farò io stesso.
Però prima di salutare senza grandi pentimenti il favoloso mondo di Facebook, con l’unico rammarico per i miei «amici», non posso non sottolineare due componenti di questa vicenda.
La prima, assai miserevole, è che qualche utente, infastidito dalle mie considerazioni, ha segnalato come «indesiderato» il post. E’ difficile entrare nel coacervo di frustrazioni e mancanza di senso del ridicolo che può aver spinto questo qualcuno a denunciarmi all’«Entità» censoria. Certo è una persona (o forse più d’una) che non sopporta un punto di vista diverso dal suo, che non ha la forza di intervenire nel merito della discussione sostenendo fino in fondo le proprie idee.
Quindi è una persona pericolosa per sé e per gli altri, rancorosa, frustrata e probabilmente priva del minimo talento che ci vuole per esistere pubblicamente, infatti si nasconde dietro un clic.
Succede ormai regolarmente che questo comportamento vigliacco, magari organizzato, sappia farsi anche «politica», andando oltre il piccolo cabotaggio di una dialettica interpersonale. Questo rancore organizzato può influenzare il dibattito pubblico, gettare sulla gogna qualche volta magari i «colpevoli» ma sempre più spesso e sempre più ferocemente gli «innocenti», e sempre più spesso i «diritti», perché non fa una lotta sacrosanta per migliorare il mondo, ma per il potere, dimostrando una avidità che nemmeno i più accaniti conservatori hanno mai mostrato di avere.
Nonostante pensi il peggio possibile di questa persona virtuale (magari più d’una), la sua inanità non può far passare in secondo piano la enorme responsabilità che i gestori e proprietari dei social media hanno.
Sono «Entità» imprendibili, sfuggenti, magari fittizie. Se queste «Entità» non capiscono che si sono assunte una responsabilità enorme, mettendo in comunicazione miliardi di esseri umani, allora sono esse stesse «Entità» ad essere sommamente pericolose, più del peggiore regime occhiuto che esista sulla faccia della terra, perché nessun regime può controllare così tante persone contemporaneamente, nessuno.
I vari episodi di censura, accaduti in particolare in questi ultimi anni, finiscono per compromettere la «libertà d’espressione» sulla quale prosperano i miliardari che hanno creato e continuano a creare i social. E ci fa presagire anche il pericolo di un supercontrollo standardizzante dinanzi al quale il «grande fratello» di Orwell è un principiante. Un supercontrollo che censura le tette delle madri che allattano ma permette il commercio di corpi umani, magari a pezzi, e carri armati.
Per fortuna il Cern, che detiene il brevetto del WWW, lo ha messo gratuitamente a disposizione del mondo. E’ forse arrivato il momento di avere anche social condivisi, pubblici, partecipati come è pubblico e gratuito il web?
Fonte: il manifesto
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