di Francesco Saraceno
Nessuna economia avanzata ha sofferto della crisi come l’Unione Europea, nella quale, come testimonia il recente terremoto Brexit, l’ampiezza della recessione e la sua durata hanno effetti sempre meno controllabili. Ma gli avvenimenti più recenti, e quello che si avvia ad essere un “decennio perduto”, non devono far perdere di vista il fatto che la nostra economia marcia a una velocità inferiore alle altre fin dai primi anni Novanta. La spiegazione che di solito viene data di questa incapacità cronica a crescere e a creare occupazione è nota: le economie europee sono affette da rigidità eccessive, soprattutto dei mercati del lavoro, che ne zavorrano la crescita.
Questa spiegazione si basa su un pensiero condiviso, un consenso che domina l’accademia e i circoli di politica economica – battezzato tempo fa come il Washington Consensus – che postula la sostanziale efficienza dei mercati, e quindi l’inutilità della politica economica.
Questa spiegazione si basa su un pensiero condiviso, un consenso che domina l’accademia e i circoli di politica economica – battezzato tempo fa come il Washington Consensus – che postula la sostanziale efficienza dei mercati, e quindi l’inutilità della politica economica.
Da questa impostazione deriva un’agenda di consigli per la politica economica che è tutta centrata sulle “riforme strutturali”, che riducano le rigidità dei mercati affidando al loro funzionamento il riequilibrio dell’economia. In particolare, questo argomento è stato invocato dai governi a proposito dei mercati del lavoro (in Italia con il Jobs Act, e adesso in Francia con la loi travail) per renderli più flessibili e aumentare l’occupazione.
Ora, già prima della crisi, non erano arrivate dagli studi in campo economico conferme scientifiche a questa ipotesi; la ricerca volta a dimostrare che le differenze di performance con gli Stati Uniti potessero essere spiegate da una maggiore rigidità delle economie europee non riusciva a raggiungere risultati robusti. La crisi ha ulteriormente indebolito il consenso sulle riforme strutturali, come testimonia ad esempio la recente analisi del Fondo Monetario Internazionale (nel World Economic Outlook di aprile) che sottolinea come le riforme del mercato del lavoro in Spagna non possano spiegare lo spettacolare calo della disoccupazione.
Per spiegare la crescita anemica del nostro continente, occorre a mio avviso prendere in conto un’altra forma di rigidità, almeno altrettanto importante di quelle di mercato: l’inerzia della politica macroeconomica, vale a dire la politica monetaria e quella fiscale, che i nostri governi fin dagli anni Novanta hanno deciso di non utilizzare proprio in ossequio a quel consenso che oggi si mostra inadeguato – e che gli stessi Stati Uniti hanno ignorato, utilizzando senza scrupoli le leve monetaria e fiscale.
La crisi ha dato poi il colpo di grazia. Non solo i mercati non sono riusciti a evitarla. Ma non sono stati capaci di assorbirla senza un massiccio intervento pubblico. Le recenti autocritiche del Fmi e dell’Economist sul neoliberalismo (il primo ha pubblicato a giugno un saggio dal titolo: Neoliberalism: Oversold?; il secondo un editoriale dal titolo Neoliberalism after Brexit, il 2 luglio) non fanno che certificare il risultato di due decenni di ricerca, che ha mostrato come i processi economici siano influenzati da mercati e mano pubblica, entità entrambe imperfette e incapaci di raggiungere da sole l’equilibrio ottimale.
La crisi ha quindi innescato un processo di ripensamento teorico del ruolo della politica economica, e in particolare della politica fiscale. Economisti del calibro di Blanchard e Summers hanno evidenziato che nei prossimi decenni l’economia rischia di invischiarsi in una stagnazione, per cui ben oltre l’intervento keynesiano di breve periodo, occorre prepararsi ad utilizzare la politica fiscale e monetaria per cercare di rilanciare la crescita senza creare bolle speculative.
In questa nuova situazione l’Europa si trova con un ulteriore problema che gli altri Paesi non hanno. Infatti, le sue istituzioni (lo statuto della Banca centrale, e le regole che governano la politica fiscale) sono state costruite nel periodo di massimo splendore delconsenso, e quindi riposano proprio sul rifiuto di ogni azione discrezionale da parte della mano pubblica. Ad aggravare la situazione viene la scelta dei costituenti dell’epoca di “scolpire nella pietra” queste istituzioni, regolando la Bce e le politiche fiscali direttamente nei trattati, che hanno forza costituzionale. Mentre per esempio negli Stati Uniti lo statuto della Fed è regolato da una semplice legge ordinaria.
Con la teoria economica che si emancipa dal consenso degli anni Novanta, se da un lato è lecito sperare che la pratica della politica economica in Europa si adegui prima o poi ai nuovi sviluppi, dall’altro, se e quando questo avverrà le istituzioni esistenti diventeranno una camicia di forza. Per quanto sia inconcepibile oggi, nel clima di divisioni e di disintegrazione nel quale ci troviamo, sarà nel medio periodo inevitabile rimettere mano alle regole del gioco. E per evitare gli errori del passato, occorrerà disegnare istituzioni sufficientemente flessibili da accomodare i più che probabili sviluppi futuri della teoria economica.
Questo vuol dire in primo luogo che i trattati, o le costituzioni dei Paesi membri, dovrebbero contenere solo i principi generali di sana politica economica; la definizione delle regole precise del gioco dovrebbe essere lasciata alla legislazione ordinaria (sia quella comunitaria o quella nazionale), più facilmente modificabile per incorporare gli sviluppi della teoria economica e della realtà.
In secondo luogo, il governo “delle regole” dovrebbe essere abbandonato, rinunciando all’illusione che l’economia possa essere governata per via tecnocratica. La politica, intesa nel senso di scelte compiute da attori responsabili di fronte agli elettori, dovrebbe riprendere la mano. Come avviene nella più grande economia liberale del mondo, gli Stati Uniti, dove nessuno metterebbe mai in dubbio che le scelte di governo e Banca centrale sono squisitamente politiche.
Fonte: Pagina99
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