Intervista a Arjun Appadurai di Francesco Cancellato
«Doveva essere un'era di comprensione, inclusione e tolleranza. È diventata l’epoca della rabbia, della paura, del sospetto reciproco». È amareggiato per quel che sta accadendo in Europa e nel mondo, Arjun Appadurai uno dei più importanti antropologi del pianeta. Indiano, ma residente da parecchio tempo negli Stati Uniti, Appadurai è a Milano per parlare del futuro come fatto culturale, nell’ambito del programma di eventi organizzati dalla Triennale di Milano e Meet the Media Guru. Il suo speech è previsto mercoledì 27 luglio alle 18,30. Poco più di ventiquattro ore prima, un prete, padre Jacques Amel, è stato sgozzato nella sua chiesa vicino a Rouen, mentre diceva messa. Ultimo di una serie di attentati che stanno insanguinando l’Europa in questo luglio di terrore.
Appadurai, lei nel 2006 ha scritto un libro che si intitolava “La paura dei piccoli numeri: un saggio sulla geografia della rabbia”. In quel testo sosteneva che grazie alla tecnologie informatiche e ai flussi migratori oggi tante piccole minoranze potevano riconoscersi se non come una maggioranza, sicuramente come qualcosa di molto più potente. Aveva profetizzato la nascita dello Stato Islamico, in qualche modo…
"No, non credo di aver profetizzato nulla. Semmai ho descritto quanto stava accadendo e continua ad accadere oggi. A segnare un cambiamento d’epoca sono stati gli attacchi del 2001 negli Stati Uniti. Il crollo delle Torri Gemelle ha rotto un idillio. Molti di noi pensavano che la globalizzazione fosse un processo che ci aveva regalato un mondo più dialogante, più comprensivo delle ragioni del prossimo, che pur tra mille storture, fosse l’inizio di una nuova di inclusione e tolleranza. Il 2001 invece è stato l’inizio di quella che ancora oggi, noi che viviamo in Occidente, chiamiamo “guerra al terrore”. E oggi ci raccontiamo una storia diversa, sulla globalizzazione: che pur avendo prodotto tutti gli effetti positivi di cui abbiamo parlato prima, che continuano a esistere, ci ha lasciato in dote anche una grande crescita della rabbia, della paura, del sospetto. Me lo chiedo tutti i giorni: com’è potuto accadere?"
Si è dato una risposta?
"Ci sto provando. E credo che il punto di partenza sia il contesto. Perché ogni guerra ideologica, che ha nemici ideologici e bersagli ideologici, ha sempre bisogno di un contesto. E quel contesto, per quanto ci riguarda, è un contesto di sfruttamento, deprivazione, prevaricazione dell’Occidente sul resto del mondo. Possiamo dire che riguardi più il passato che il presente, ma questo è. A questo contesto si somma la crescita delle disuguaglianze: in India il problema non è lo Stato Islamico, ma la ribellione della casta degli intoccabili. Quasi ogni giorno si legge sui giornali di domestici che uccidono i loro padroni. Per chi lecca la vetrina, agognando una ricchezza vicinissima, ma che non riuscirà mai ad avere, la frustrazione è enorme, così come il senso di smarrimento e la perdita di senso dell’esistenza. La religione offre una risposta. Nel caso dello Stato Islamico, una risposta rabbiosa e prevaricante."
Come se il Califfato fosse una specie di alternativa al capitalismo globale: premoderna, feudale, fondata sui dogmi religiosi. Una specie di ritorno al medioevo che fa presa sugli sconfitti del capitalismo…
"Non sono del tutto d’accordo. Nella mia esperienza quando la religione torna al centro delle nostre civiltà non è solamente un ritorno al passato: domande come «Chi sono?» o «Esiste un Dio?», non possono essere lette solamente come un ritorno al passato. Una lettura diacronica della realtà attuale - civilizzazione contro medioevo - sarebbe sbagliata. Lo Stato Islamico ha numerosi elementi di ipermodernità: a loro modo, la Ummah e il Califfato sono una sorta di via islamica alla globalizzazione, o un’alternativa all’impero americano. Al pari di Al Qaeda e dei telebani non sono premoderni, sono moderni quanto noi, ma su un altro binario del pensiero umano."
È un binario, però, che attrae a se personalità complesse: qualcuno, guardando i profili dei recenti attentatori europei, ha detto che più che un problema di ideologia, è un problema di psicopatologia…
"Io credo che sia un problema sia ideologico, sia psicopatologico. Parliamo degli ultimi attentati: quello di Parigi allo Stade de France e al Bataclan, così come quelli di Bruxelles erano chiaramente attentati perpetrati attraverso un commando militare, addestrato e preparato. Quelli a Nizza, Wurzburg, Ansbach, Monaco, fino all’evento di ieri a Rouen rispondo più a un altro pattern. Meno militare, più legato alle psicopatologie dell’individuo. Gli attentatori di questi ultimi giorni - ad esclusione del ragazzo di Monaco - sono sicuramente soggetti con qualche tipo di patologia, persi, soli. Ma sono anche soggetti che, a causa delle loro situazione patologica, entrano in connessione con messaggi e ideologie che offrono loro una risposta: «Ecco perché ti senti così perso», sembrano dire loro. In qualche caso è l’Isis, ma può essere anche Trump, o l’estrema destra austriaca. Ci sono molte ideologie disponibili e quando sei alla deriva ognuna di esse prova a venire in tuo soccorso. Oggi, per dirla con Oliver Roy, l’islamismo è semplicemente l’alternativa più affascinante per chi si sente alla deriva e ha bisogno di radicalizzarsi."
Parliamone, di Trump. Lei che è in America da straniero, come lo vive?
"Quel che sta succedendo in America è molto preoccupante. Si sta tutto spostando a destra. Anche i democratici si stanno spostando a destra. Non abbastanza per votare Trump, ma il movimento è chiaro. Il problema è che è un sentimento populista di estrema destra che non ha alcuna visione del futuro. Parla di rifare l’America grande, ma vuole uscire dal Wto. È isolazionista e imperialista assieme. George W. Bush, in confronto, aveva una visione chiara. Sbagliata ma chiara. Io da Trump non so cosa aspettarmi. Ammesso che vinca, ovviamente."
Uno dei temi chiave della campagna di Donald Trump è la lotta all’immigrazione. E in fondo sono le migrazioni, anche in Europa, che stanno mettendo in crisi tutto quanto…
"C’è una questione migrazione in Europa. Non è nuova, sia chiaro, ma in questi ultimi mesi è aumentata oltre il livello di guardia, a causa di una crisi locale, in Siria, che ha creato questa emergenza. Quel che non comprendiamo è che le persone, i capitali, le idee si muovono nel mondo nel contesto della medesima cornice. Ad esempio, la crisi dei migranti segue di soli sei mesi la crisi dell’Euro. Una crisi di sovranità che la crisi dei migranti scoperchia in tutta la sua evidenza. E che a sua volta produce la Brexit e aggrava la gestione continentale e sovrastatale dell’emergenza profughi. E in questo suo aggravarsi, arrivano gli attentati in Francia e Germania. Le crisi sono connesse, hanno una cornice comune: la finanza, la polarizzazione della ricchezza, le migrazioni, il ruolo dell’Europa, gli attentati dello Stato Islamico. Se si vuole capire la globalizzazione, bisogna provare a leggerla tutta assieme."
Fonte: Linkiesta
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