di Paolo Rizzi
The Brexit Crisis”: così si intitola il volume gratuito pubblicato dalla casa editrice della sinistra inglese Verso Books. Una raccolta di interventi di intellettuali militanti, diversi per posizione sulla Brexit, per provenienza sociale e per approcci teorici. Nel suo insieme, la raccolta costituisce un dialogo a più voci sulla natura di classe della Brexit, sul ruolo del razzismo e sulle prospettive per il futuro dell’Unione Europea. Uno degli interventi più interessanti è la “Lettera aperta alla sinistra snglese” diStathis Kouvelakis, docente di scienza politica al prestigioso King’s College di Londra e, in Grecia, membro di Unità Popolare.
Secondo Kouvelakis la configurazione di classe del voto è evidente, ma un po’ più complessa delle analisi frettolose dei giorni immediatamente successivi al voto. Kouvelakis analizza i voti realmente espressi - non i sondaggi! – e trova una situazione del voto complessa. Le aree con più alta presenza di borghesia e di lavoro impiegatizio di alto livello, hanno votato in massa per rimanere. In pratica, votano a maggioranza per rimanere le aree dove il reddito medio è superiore a 25mila sterline annue. Votano per l’UE anche alcune aree con un reddito inferiore, in alcune grandi città e in Scozia. Votano invece in massa per la Brexit le altre aree, quelle ad altissimo tasso di lavoro dipendente manuale e di disoccupazione. Quest’analisi smonta l’idea di una divisione netta tra il voto della working class “bianca” e quella di origine straniera. La divisione appare invece tra le aree storicamente sconfitte dalla ristrutturazione economica della Thatcher e le aree vincenti. In pratica, la condizione materiale dei lavoratori dipendenti nelle grandi città non è migliore di quelli delle aree extra urbane, ma i “cittadini” hanno ragionevoli prospettive di migliorare la propria condizione nel futuro, o quantomeno quella dei figli. C’è poi la questione dell’età, Kouvelakis ricorda che la coorte d’età 18-25 anni è quella che ha votato meno di tutte, i giovani euro-entusiasti hanno speranze di poter migliorare la propria situazione attraverso lo studio, speranza che diminuisce drasticamente nella coorte d’età 35 – 55, cioè nel settore di popolazione attiva che ha provato sulla propria pelle il mercato del lavoro, anche con un titolo di studio elevato. Infine, come spiegare il voto della Scozia? Secondo Kouvelakis si deve tornare ancora alle divisioni create dalla Thatcher: la distruzione dell’economia scozzese ha creato un fortissimo senso d’identità nazionale, con dinamiche politiche autonome dal resto del Regno Unito. Un senso d’identità che porta la working class scozzese a esprimersi in maniera autonoma nella speranza di poter creare uno stato autonomo non sottoposto alle decisioni di Londra.
Secondo Kouvelakis la configurazione di classe del voto è evidente, ma un po’ più complessa delle analisi frettolose dei giorni immediatamente successivi al voto. Kouvelakis analizza i voti realmente espressi - non i sondaggi! – e trova una situazione del voto complessa. Le aree con più alta presenza di borghesia e di lavoro impiegatizio di alto livello, hanno votato in massa per rimanere. In pratica, votano a maggioranza per rimanere le aree dove il reddito medio è superiore a 25mila sterline annue. Votano per l’UE anche alcune aree con un reddito inferiore, in alcune grandi città e in Scozia. Votano invece in massa per la Brexit le altre aree, quelle ad altissimo tasso di lavoro dipendente manuale e di disoccupazione. Quest’analisi smonta l’idea di una divisione netta tra il voto della working class “bianca” e quella di origine straniera. La divisione appare invece tra le aree storicamente sconfitte dalla ristrutturazione economica della Thatcher e le aree vincenti. In pratica, la condizione materiale dei lavoratori dipendenti nelle grandi città non è migliore di quelli delle aree extra urbane, ma i “cittadini” hanno ragionevoli prospettive di migliorare la propria condizione nel futuro, o quantomeno quella dei figli. C’è poi la questione dell’età, Kouvelakis ricorda che la coorte d’età 18-25 anni è quella che ha votato meno di tutte, i giovani euro-entusiasti hanno speranze di poter migliorare la propria situazione attraverso lo studio, speranza che diminuisce drasticamente nella coorte d’età 35 – 55, cioè nel settore di popolazione attiva che ha provato sulla propria pelle il mercato del lavoro, anche con un titolo di studio elevato. Infine, come spiegare il voto della Scozia? Secondo Kouvelakis si deve tornare ancora alle divisioni create dalla Thatcher: la distruzione dell’economia scozzese ha creato un fortissimo senso d’identità nazionale, con dinamiche politiche autonome dal resto del Regno Unito. Un senso d’identità che porta la working class scozzese a esprimersi in maniera autonoma nella speranza di poter creare uno stato autonomo non sottoposto alle decisioni di Londra.
Sulla geografia elettorale interviene anche il sociologo William Davies, che insiste ancora sull’eredità del thatcherismo. Davies rileva un fenomeno particolare: molte delle aree extra urbane che hanno votato Remain sopravvivono, in effetti, grazie aisussidi europei. Nelle sue ricerche in queste aree, Davies ha trovato che “è improbabile che gli abitanti della Cornovaglia o di altre aree economiche periferiche si sentano grati verso l’Unione Europea per i sussidi. Sapere che la tua impresa, la tua fattoria, la tua famiglia o la tua regione dipendono dalla beneficenza dei ricchi liberali difficilmente ti renderà soddisfatto”. E ancora, che la popolazione extra urbana soffre un’umiliazione continua esemplificata dai programmi televisivi in cui i comici milionari prendono di mira i “chavs”, i poveri delle periferie economiche. Infine, Davies trova una grande differenza tra il referendum sulla Brexit e quello sull’indipendenza scozzese. Mentre il referendum scozzese era guidato dalla speranza di un nuovo stato orientato alla giustizia sociale, la Brexit parrebbe essere guidata da un desiderio quasi nichilistico di abbattere la classe dirigente, interamente schierata per il Remain, senza prendere in considerazione nessun piano per il futuro.
Dall’Impero al razzismo
Laleh Khalili, docente alla SOAS di Londra, ha una lettura molto diversa da quella di Kouvelakis e Davies. Per Khalili la chiave di lettura non è la classe ma il razzismo. Khalili presenta due argomenti. Il primo è che nelle circoscrizioni più popolari c’è stata un’affluenza molto più bassa che in quelle della media-alta borghesia. In questa maniera, i voti della classe lavoratrice e della borghesia per la Brexit finirebbero per equivalersi in termini di voti assoluti. Il secondo argomento sono i sondaggi effettuati il giorno del voto, da cui risulterebbe che la maggior parte degli elettori che si identificano come bianchi o cristiani avrebbe votato Brexit mentre coloro che si identificano come neri o musulmani hanno votato in maggioranza Remain.
Khalili, insieme ad altri autori come Akwugo Emejulu e Wail Qasim, concorda invece con Kouvelakis e Davies nel ritrovare la radice del razzismo nel thatcherismo e nella distruzione dello stato sociale che a sua volta fa riemergere anche la vecchia spocchia razziale ereditata dall’epoca imperiale. Una responsabilità da cui non è esente neanche il Partito Laburista che, anzi, Khalili accusa esplicitamente di aver continuato le politiche dell’odiata Thatcher e di essere stato “completamente complice nel piegarsi ai sentimenti xenofobi per sviare il malcontento creato dalle politiche del New Labour”.
Cosa resterà dell’Unione?
Il filosofo marxista francese Etienne Balibar porta uno sguardo sulle dinamiche generali dell’Europa. Innanzitutto, per Balibar è presto per considerare il Regno Unito fuori dall’Unione, per due motivi. Il primo è che tutti i referendum sull’Unione Europea svolti negli altri paesi, sono stati ignorati oppure ripetuti per cambiarne il risultato. Il secondo è che molti leader europei hanno inizialmente impostato un discorso durissimo sull’irrevocabilità della decisione di uscire, salvo poi tornare sui propri passi schierandosi su posizioni più morbide. Balibar, da convinto europeista, riconosce che la Brexit è la conseguenza, piuttosto che la causa, delle spinte alla disintegrazione dell’Unione messe in moto dalla sua gestione tecnocratica. Secondo il francese ci vorrebbe un progetto di democrazia su scala europea che comprenda una sovranità distribuita fra Stati ed Europa, lo sviluppo comune delle regioni attraverso le frontiere e gli scambi tra le culture. Come riconosce lo stesso Balibar, tutto questo è molto lontano dalla realtà, ma non per questo egli rinuncia a cercare di costruirlo.
Se Balibar non è ottimista, lo è ancora di meno Wolfgang Streeck, sociologo del Max Planck Institute di Colonia. Streeck critica la guida tedesca dell’Unione con una durezza che nessun non-tedesco si potrebbe permettere. Sulla gestione dell’emergenza dei rifugiati, il giudizio è pesantissimo, la Germania avrebbe inizialmente accolto i profughi per colmare il vuoto demografico tedesco, avrebbe camuffato quest’operazione da intervento umanitario, condannando moralmente chiunque non volesse attuare il sistema di quote fisse indipendentemente dalle condizioni demografiche e del mercato del lavoro dei singoli paesi. Salvo poi fare un repentino dietro front, concludendo l’accordo col dittatoriale Erdogan per bloccare l’afflusso di profughi, promettendo addirittura di riaprire le contrattazioni per l’ingresso della Turchia nell’UnioneEuropea.
Per Streeck l’impianto delle istituzioni europee sta già collassando, e lo sta facendo da quando negli anni ’90 l’Unione ha abbandonato la sua “dimensione sociale” (momento che, bisogna ricordarlo, corrisponde all’ultima svolta liberista della socialdemocrazia tedesca). E, per Streeck, gli europeisti hanno poco da festeggiare per il possibile ingresso di un nuovo stato scozzese nell’UE. In una situazione come questa la Scozia – come altri possibili neo stati, dalla Catalogna alla Corsica – entrerebbe nell’Unione per poter esercitare la propria autonomia, non per entrare in un progetto di super-stato europeo.
Un ultimo sguardo esterno è dato dallo storico di Harvard John R. Gillingham, secondo cui “l’idea europea è diventata marcia”. Secondo Gillingham l’attuale Unione Europea non è in grado di fornire le economie di scala che servirebbero a sopravvivere nella terribile competizione globale impostata da Stati Uniti e Cina. Anzi, attualmente l’Unione Europea non è altro che una macchina capace di imporre solo l’abbassamento dei salari, mentre la ricetta giusta dovrebbe essere l’investimento forte nei campi ad altissima tecnologia come la quinta generazione di apparecchi di telecomunicazione. Inoltre, troppe crisi minano la stabilità europea. Oltre alla possibilità della Brexit (l’intervento è stato scritto prima del referendum), Gillingham mette l’Italia al centro delle preoccupazioni: “I cittadini e le istituzioni, pubbliche e private, della quarta economia dell’UE, detengono gran parte dei debiti sovrani europei, non meno della metà del totale dei debiti sovrani dell’Unione Monetaria, con un valore nominale molto superiore a quello che avrebbero sul mercato. Una volta venduti, il vero valore (o la mancanza di valore) di questa cartaccia renderebbe pubbliche le condizioni disperate del sistema bancario più vulnerabile e meno liquido d’Europa […], porterebbe l’Italia nelle mani del Fondo Monetario Internazionale e minaccerebbe la sopravvivenza dell’Eurozona”. La crisi del Monte dei Paschi di Siena e i piani di salvataggi bancari sono, appunto, la nostra cronaca quotidiana. E, continua Gillingham, se non sarà l’Italia, sarà il Portogallo, oppure la Spagna con tanto di secessione della Catalogna.
The Brexit Crisis, per gli italiani
The Brexit Crisis è un volume pensato per i lettori che presenta, però, un grande interesse anche per i lettori italiani, soprattutto se impegnati nell’attività politica a sinistra. Il primo punto d’interesse è la serietà e la profondità degli interventi, caratteristiche in gran parte assenti nel discorso pubblico italiano dopo la vittoria del Leave. Il secondo punto d’interesse è la varietà di punti di vista sulla Brexit, pur essendo stati originariamente pubblicati su piattaforme diverse, i testi raccolti creano un dialogo a più voci che offre molti spunti di pensiero ai lettori impegnati in vari campi: sindacato, associazionismo o “politica partitica”. Infine, “The Brexit Crisis” offre al lettore italiano che voglia restare aggiornato sugli eventi del Regno Unito un ventaglio di autori da poter continuare a seguire nel tempo.
Fonte: La Città futura
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